Quanti chilogrammi di anidride carbonica vengono emessi in atmosfera per produrre 1 litro di latte? La bibliografia fornisce dati molto vari, che vanno da poco meno di 1 chilogrammo fino a 3-4 chili e più. Tutto dipende da come lavorano le stalle, dove sono ubicate, come gestiscono i reflui e dove producono o acquistano il mangime di cui gli animali hanno bisogno.

 

Quando sui giornali si legge che 1 litro di latte (ma sarebbe più corretto parlare di chilogrammi di latte) emette, ad esempio, 2 chilogrammi di CO2, si fa una media di Trilussa: c'è chi produce con 0,5 e chi con 3 chilogrammi/litro. La forbice è alta perché in agricoltura le variabili sono molteplici e non c'è mai una stalla uguale all'altra. Se 1, 2 o 5 chilogrammi di CO2 siano tanti o pochi è altrettanto soggettivo. Per avere un termine di paragone, una Fiat Panda emette 0,125 chilogrammi di CO2 a chilometro.

 

Dato che i numeri sono così ballerini è difficile dire se un'azienda o un comprensorio sta facendo bene o male. Senza numeri precisi chiunque può dire la sua e allora ogni posizione ha lo stesso valore. Per cercare di mettere dei dati sul tavolo della discussione con opinione pubblica, filiera ed enti territoriali, l'Associazione Allevatori del Friuli Venezia Giulia ha dato il via a un poderoso progetto di mappatura che sta coinvolgendo trecentosettanta stalle e che ha come obiettivo quello di misurare la carbon footprint di ogni singola realtà produttiva.

 

Cos'è la Life Cycle Assessment e perché è cruciale

La Life Cycle Assessment (Lca) è una metodologia riconosciuta a livello internazionale per valutare l'impatto ambientale di un prodotto lungo tutto il suo ciclo di vita, dalla produzione delle materie prime fino all'uscita dal cancello dell'azienda agricola. Non si limita quindi a misurare le emissioni dirette degli animali, ma considera anche quelle indirette legate al consumo di energia, all'acquisto di mangimi, all'uso di fertilizzanti, alla gestione dei reflui, alle pratiche colturali e molto altro.

 

È uno strumento che permette di avere una fotografia completa, evitando di attribuire responsabilità a comparti sulla base di generalizzazioni. Nel caso del latte, il metodo Lca consente di capire quanto ogni fase della filiera contribuisce alle emissioni di gas serra e dove si può intervenire per migliorare.

 

"Abbiamo deciso di intraprendere questo percorso per un motivo semplice: vogliamo avere dei dati certi, oggettivi e trasparenti su cui costruire il futuro della zootecnia regionale", spiega Marco Bassi, direttore dell'Associazione Allevatori del Friuli Venezia Giulia. "Non possiamo più permetterci di discutere solo per opinioni o sensazioni. Servono numeri e noi abbiamo deciso di raccoglierli da tutte le aziende sotto controllo funzionale, circa trecentosettanta stalle. Non un campione, tutte".

 

Il progetto, attivo da gennaio 2025 e con conclusione prevista per fine 2026, è promosso dalla Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, con la collaborazione tecnica dell'Università degli Studi di Udine e il supporto operativo dell'Ente Regionale per lo Sviluppo Rurale (Ersa), che ha sviluppato anche il software AgriCS usato per l'analisi.

 

Il personale coinvolto nel progetto. Da destra: Virginia Picech, Vanessa Collavino, Marco Bassi, Giulia Tulissi

Il personale coinvolto nel progetto. Da destra: Virginia Picech, Vanessa Collavino, Marco Bassi, Giulia Tulissi

(Fonte foto: Associazione Allevatori del Friuli Venezia Giulia)

 

Che cosa si misura e come

La raccolta dati avviene tramite questionari approfonditi somministrati agli allevatori e prevede la raccolta di informazioni su:

  • superfici coltivate e pratiche agronomiche. Ad esempio, chi effettua la minima lavorazione ha un impatto ambientale minore rispetto a chi ara.
  • razione alimentare degli animali. Più si utilizzano mangimi prodotti in loco, meglio è.
  • tipo di fertilizzanti e concimi usati. Acquistare fertilizzanti di sintesi fa aumentare l'impronta carbonica rispetto all'uso del letame proveniente dalla stalla.
  • stoccaggio e uso degli effluenti zootecnici. Le vasche libere emettono metano e CO2, quelle coperte meno. Il top è ricorrere a biodigestori.
  • acquisto di input. Più si introducono input provenienti da fuori azienda (magari anche dall'estero o da un altro continente), più l'impronta carbonica cresce.
  • consumo energetico e presenza di fonti rinnovabili. Come è facile capire, alimentare la stalla con pannelli fotovoltaici è diverso dall'utilizzare un generatore diesel.
  • metodi di irrigazione. L'uso dell'acqua ha un costo diretto, legato alla risorsa idrica utilizzata, e indiretto, relativo al consumo di energia per trasportarla.
  • vendite di latte e carne. In linea di principio, più latte si produce per vacca, più i costi produttivi, in termini di CO2, diminuiscono per singolo litro di latte prodotto.

 

I dati vengono poi ripuliti e contestualizzati, come spiega Vanessa Collavino, responsabile tecnica del progetto. "In presenza di aziende miste, ad esempio con vigneti o frutteti, ci concentriamo solo sulla parte relativa alla produzione di latte, per evitare sovrapposizioni e distorsioni".

 

Come ogni innovazione, anche questo progetto ha inizialmente suscitato qualche perplessità. "All'inizio c'era un po' di timore e diffidenza - ammette Marco Bassi - ma col tempo gli allevatori hanno capito che si tratta di uno strumento tecnico, non punitivo. Oggi, su centotrenta aziende già processate, solo una manciata mostra ancora qualche perplessità".

 

Del resto, la partecipazione non richiede la produzione di nuovi dati, ma solo il tempo di recuperarli: si tratta di informazioni già presenti nei gestionali aziendali, che devono solo essere raccolte. "Chi è più ordinato fa prima, chi ha più animali ci mette più tempo, ma nessuno deve inventarsi nulla", conferma Vanessa Collavino.

 

I primi numeri: la CO2 va da 0,6 a 1,9 chilogrammi/litro

L'elaborazione dei dati, seppure parziali, ha già restituito una forbice molto significativa. "I primi risultati ci mostrano un range di emissioni che va da 0,6 a 1,9 chilogrammi di CO2 equivalente per litro di latte prodotto", riferisce Marco Bassi.

 

Le aziende che ottengono le performance migliori sono generalmente quelle che riescono a produrre internamente una parte rilevante degli alimenti per il bestiame, che valorizzano in modo efficiente il letame come fertilizzante riducendo l'impiego di concimi chimici, che hanno investito in impianti di biogas aziendali e che mostrano un'elevata efficienza produttiva in rapporto ai litri di latte prodotti.

 

Anche altri fattori, come la presenza di razze a duplice attitudine o l'utilizzo del pascolo, possono contribuire a ridurre l'impronta ambientale complessiva. "Abbiamo, ad esempio, un'azienda al pascolo che registra un'impronta intorno a 0,9: non è la più bassa in assoluto, ma dimostra che anche questo modello può essere competitivo", osserva Vanessa Collavino.

 

Un aiuto concreto per migliorare

Uno degli obiettivi del progetto è fornire agli allevatori strumenti di autovalutazione e miglioramento. Il software AgriCS, infatti, consente di identificare i punti critici e i margini di ottimizzazione. "In futuro potremo fornire assistenza tecnica personalizzata per suggerire, ad esempio, una gestione migliore degli effluenti, l'introduzione di fonti energetiche rinnovabili o il miglioramento della razione alimentare per ridurre le fermentazioni enteriche", spiega Vanessa Collavino.

 

Ma il progetto non si rivolge solo al mondo agricolo. "La Regione ha chiesto che questo lavoro serva anche a comunicare alla popolazione cosa vuol dire davvero fare zootecnia oggi", afferma Bassi. "Gli allevatori sono spesso sotto accusa, ma nessuno racconta l'evoluzione che hanno fatto negli ultimi vent'anni. Questa è la nostra occasione per farlo con numeri alla mano".

 

I dati Lca saranno anche utili per indirizzare le politiche regionali e i fondi pubblici, orientando gli investimenti verso pratiche più sostenibili. E per la filiera lattiero casearia rappresentano un valore aggiunto spendibile anche a livello commerciale, come già avviene per alcune aziende con punto vendita, che espongono il risultato in etichetta o sul cancello della stalla.

 

Infine, questa mappatura potrebbe diventare la base tecnica per l’attivazione di sistemi di carbon credit. Se si conosce con precisione quante emissioni si producono, diventa possibile, in prospettiva, quantificare anche quanto si risparmia adottando pratiche virtuose. "Oggi il mercato dei crediti di carbonio in agricoltura è ancora in divenire, ma in futuro questi dati potranno servire per accedere a nuove forme di valorizzazione economica del lavoro di riduzione delle emissioni", conclude Marco Bassi.