La gravità della crisi nella quale è sprofondata la suinicoltura italiana la si è toccata con mano in quest'ultima edizione della Rassegna suinicola internazionale di Reggio Emilia. Cancelli della fiera sbarrati a delimitare un'area fieristica deserta, senza espositori e senza visitatori. Solo tre giorni di convegni, ultimo tentativo di mantenere vivo un appuntamento che era riuscito per 52 anni a calamitare l'attenzione di aziende e allevatori. Difficile immaginare che la Rassegna possa resuscitare. Il perché lo si è capito in particolare da uno degli incontri organizzato dal Crpa (Centro ricerche produzioni animali) dal titolo “Scenari e opportunità per la suinicoltura al 2020”.
Partiamo dal costo di produzione del suino pesante italiano, fonte della materia prima indispensabile ai nostri salumi Dop. Rispetto alla media europea i nostri suini costano il 20% in più. Un divario che solo teoricamente potrebbe essere annullato dal maggior valore dei nostri prosciutti Dop. Ma così non è. A conti fatti si arriva si e no a coprire il 10% di questo divario. A complicare il quadro e ad abbassare i prezzi si è poi aggiunto l'embargo russo, che ha ridotto i flussi di export. I prezzi sono così crollati a 1,27 euro al chilo, contro un costo di produzione che in media è di 1,50 euro nel caso del suino pesante, come evidenziano i dati elaborati dal Crpa. La conseguenza è una flessione del numero di scrofe in allevamento, problema che ha riguardato un po' tutta la suinicoltura europea, dove si è perso quasi un milione di scrofe. Ma mentre negli altri Paesi Ue si assiste ad un recupero, in Italia, dove le scrofe sono diminuite di 150mila unità, la situazione non accenna a sbloccarsi.
I tre pilastri
Che fare di fronte a questo scenario a tinte fosche? Tre le leve sulle quali è possibile agire, come evidenziato in occasione del convegno che si è tenuto in questa ultima edizione della Rassegna: utilizzare le risorse messe in campo dal Psr, ridurre l'incidenza delle patologie più diffuse e le loro conseguenze sull'economia aziendale, migliorare l'efficienza e la produttività degli allevamenti. Iniziamo dai Psr, che in Emilia Romagna vantano una importante disponibilità finanziaria, circa 1,2 miliardi di euro, fra i primi ad ottenere il placet della Commissione europea, giunto il 28 maggio. Certo, districarsi fra priorità, focus area, vincoli e indirizzi descritti nelle oltre 1000 pagine che lo compongono (per chi ha il “coraggio” di cimentarsi nella lettura può scaricarle qui), non è cosa semplice. Ma gli allevatori di suini, magari con l'aiuto di un esperto, potrebbero trovare fra l'altro qualche risposta ai problemi della gestione degli effluenti zootecnici e anche aiuti per progetti innovativi, soprattutto se attuati in forme associative.
Lotta alle malattie
Il grande capitolo della difesa sanitaria vede due importanti “nemici”, le patologie che hanno ripercussioni sul piano commerciale oltre che su quello aziendale, e quelle che incidono sulla produttività degli animali, riducendo performance e aumentando la mortalità. Nel primo gruppo rientra la malattia di Aujesky, contro la quale si sta attuando un importante piano vaccinale (nell'ultima campagna le dosi utilizzate sono state circa 14 milioni, cinque milioni in più della precedente). E i risultati stanno arrivando, visto che gli allevamenti indenni nell'area del bacino padano sono raddoppiati. Più difficile affrontare il grande capitolo delle patologie respiratorie ed enteriche, che vedono in azione patogeni le cui sigle sono purtroppo divenute note alla maggior parte degli allevatori, come la PRRS (sindrome respiratoria e riproduttiva del suino) o la PED (diarrea epidemica del suino). Molto dipende dalle misure di profilassi attuate in azienda, ma altrettanto da programmi di controllo che possono essere messi a punto con l'aiuto e il supporto degli Istituti zooprofilattici.
Un momento dell'incontro organizzato a Reggio Emilia dal Crpa
Migliorare si può
Infine il miglioramento delle prestazioni produttive degli animali. Sebbene l'Italia possa vantare allevamenti all'avanguardia, il divario che ci separa da altri paesi è notevole. E' il caso del numero di suinetti svezzati per scrofa, che in Danimarca, ad esempio, raggiunge le 30 unità, mentre in Italia si ferma a 23,6. Un risultato eccellente, quello danese, che nasce dall'elevato numero di suini vivi per parto, che in media è di 14,89 unità, contro le sole 11,90 degli allevamenti italiani. Risultati che sono conseguenza di buone pratiche di allevamento, ma anche di eccellenze nella genetica degli animali allevati. Un differenziale che va colmato anche se sarà difficile recuperare il gap che ci separa dai paesi all'avanguardia.
Sarà necessario un forte impegno sia del mondo della ricerca sia degli stessi allevatori nell'apportare innovazioni in allevamento. A questi ultimi si chiederà un ulteriore sforzo nel favorire forme di aggregazione che diano più equilibrio nei rapporti di filiera (oggi la distribuzione del valore è a vantaggio di industrie e distribuzione) e nel progettare strategie capaci di cogliere le opportunità dei Psr. Si potrà così frenare l'emorragia di allevamenti italiani. E pazienza se la Rassegna suinicola di Reggio Emilia non riemergerà dalle sue ceneri.