È iniziata in questi giorni la raccolta dei baby kiwi, chiamati anche mini kiwi o Nergi. Si tratta di un frutto di piccole dimensioni, dalla pelle priva di peluria e commestibile, dal sapore dolce e dalla polpa carnosa. Una pianta appartenente al genere Actinidia (Actinidia arguta) che è stata selezionata in Nuova Zelanda, la patria del kiwi, e che ha iniziato a diffondersi anche in Francia, Italia e Olanda.

Un frutto di piccole dimensioni ma ricco di sapore, che piace agli italiani, ma che richiede particolari cure nella fase di coltivazione e commercializzazione. Nella provincia di Cuneo si concentra la maggiore presenza di impianti, come quello da 80 ettari di Ortofruit Italia. "Sono ormai alcuni anni che ci dedichiamo alla coltivazione dei mini kiwi, varietà Nergi, e abbiamo ottenuto un buon riscontro dal mercato", spiega ad AgroNotizie Domenico Paschetta, presidente dell'Op Ortofruit Italia. "È un prodotto sicuramente di nicchia, assimilabile a quello dei piccoli frutti, la cui offerta si concentra nei mesi di settembre e ottobre visto che la conservabilità è piuttosto bassa".

In effetti sugli scaffali della grande distribuzione è possibile trovare i baby kiwi in piccole confezioni da 125 grammi posizionate insieme a fragole, mirtilli, more e lamponi. Con i quali condivide grosso modo lo stesso prezzo al chilo. La raccolta del prodotto inizia a fine agosto-inizio settembre e termina con ottobre. La shelf life, come ricordato, è piuttosto limitata e il prodotto deve essere consumato entro pochi giorni dalla raccolta, tranne nel caso della varietà club Nergi, che invece subisce un processo di affinamento e ha una shelf life un po' più lunga.
Baby kiwi
(Fonte foto: Mauro Mellano)

"La sfida più impegnativa adesso è rendere il baby kiwi riconoscibile per il consumatore", spiega Paschetta. "È un prodotto che piace perché si mangia con la buccia e quindi è adatto anche ai bambini. Inoltre è fresco, dolce e con un profilo nutritivo eccellente. Le campagne di comunicazione che abbiamo promosso hanno avuto un ottimo riscontro che però si scontra con la bassa disponibilità temporale e anche fisica, visto che le coltivazioni sono ancora limitate".

Insomma, il frutto è poco conosciuto, ma quando si investe in comunicazione e si spinge il consumatore a ricercarlo negli store, piace. Ma a differenza del kiwi tradizionale, che si conserva bene praticamente per tutto l'anno, il mini kiwi è disponibile solo per due mesi. Questo disabitua il consumatore al consumo e quindi il rischio è che ogni anno si debba intervenire con una comunicazione ad hoc. Molti responsabili dell'assortimento dei supermercati sono reticenti a mettere il baby kiwi sugli scaffali, anche perché il colore verde del frutto è poco invitante e a volte viene confuso per una oliva dal consumatore disattento.

Dopo tre anni dall'impianto il frutteto entra in produzione e a regime raggiunge i 150 quintali ad ettaro (varietà Nergi). Dal punto di vista agronomico Actinidia arguta è una pianta piuttosto rustica che presenta molti meno problemi rispetto ad Actinidia chinensis dal punto di vista fitosanitario. Ad esempio è poco suscettibile alla batteriosi. Questa caratteristica ha spinto molti agricoltori ad abbandonare le classiche varietà per impiantare la versione mini. Attualmente sono disponibili alcune cultivar non coperte da diritti, mentre la varietà Nergi, selezionata in Francia, richiede il pagamento di royalties.
 
Alcuni mini kiwi
(Fonte foto: Mauro Mellano)

"A livello di gestione dell'impianto le differenze con il kiwi tradizionale sono poche", spiega Mauro Mellano, titolare di un'azienda agricola di Lagnasco, vicino a Saluzzo, che ha 20 ettari coltivati a baby kiwi. "Uno degli aspetti più complessi è sicuramente la gestione della raccolta che avviene completamente a mano. I nostri operai indossano guanti in lattice e dopo aver reciso i frutti li depositano direttamente nei contenitori di plastica che poi finiscono al supermercato. Questo perché il frutto risente molto degli urti e basta poco per rovinarlo".

Essendo un frutto delicato lo scarto fisiologico è del 20-30%, il che ha spinto Ortofruit ad intraprendere la strada della trasformazione. "Quest'anno faremo delle prove per produrre delle marmellate e a detta degli esperti il fatto che il frutto contenga naturalmente pectina dovrebbe avvantaggiarci. Un modo anche per destagionalizzare le vendite", racconta Paschetta.