I Consorzi di bonifica continuano a tenere banco in tutta Italia con le “cartelle pazze”. Non c’è angolo della Penisola che non sia raggiunto da pretese di pagamento di tributi, che molto spesso o sono richiesti in maniera non commisurata al beneficio ricevuto dall’agricoltore oppure non hanno alcuna legittimità, mancando il benefico. E non mancano casi eclatanti, come la presenza invece del danno per l’agricoltore, come accaduto nel Sud della Puglia, dove l’abbandono delle opere degli enti ha contribuito almeno in parte a provocare allagamenti e perdite per le aziende.
Il tutto avviene ad ormai oltre un anno dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 188 del 10 ottobre 2018, che ha sancito definitivamente come non possa esserci tributo di bonifica senza beneficio per la contribuenza. Su tanto, su chi insista l’onere della prova del beneficio o della sua insussistenza, AgroNotizie ha sentito l’avvocatessa Rosella Giannini di Orvieto, che ha maturato negli anni una importante esperienza a difesa delle ragioni degli agricoltori nei giudizi contro i Consorzi di bonifica.

Con la sentenza della Corte Costituzionale di un anno fa, viene sancito definitivamente che i contributi di bonifica – comunque calcolati - sono dovuti solo in presenza di un beneficio fondiario per l’utente. Secondo la sua esperienza questo pronunciamento della Consulta, ad un anno da allora, ha realmente cambiato qualcosa?
"In realtà i contributi di bonifica sono da sempre dovuti esclusivamente in ragione del beneficio fondiario concreto derivante ai singoli immobili dalle opere consortili, beneficio che secondo la Legge deve costituire anche il parametro a cui l’imposizione deve essere rapportata.
Sin dal 1996 la Corte di Cassazione – con la sentenza delle Sezioni Unite n.860, tuttora insuperata e costantemente richiamata nelle decisioni successive - afferma che tali tributi non sono imposte e nemmeno tasse, bensì “oneri reali”, cioè pesi gravanti sugli immobili in virtù dell’incremento di valore fondiario a questi apportato dagli enti di bonifica con le loro opere, rispetto alle quali il contributo (ora qualificato dalla Corte Costituzionale come “tributo di scopo” perché destinato ad alimentare la provvista del Consorzio per poter realizzare le opere di bonifica) svolge una funzione corrispettiva, seppure in senso ampio e non in presenza di uno stretto nesso di reciprocità, come sarebbe per un canone o una tariffa.
In quella sentenza la Suprema Corte specificava altresì che il beneficio fondiario derivante dalla concreta attività dell’ente ed atto a legittimare la pretesa di contribuzione – pur potendo essere futuro e relativo ad un complesso di beni - deve essere diretto e specifico, cioè strettamente incidente sull’immobile assoggettato a tributo, capace di tradursi in una “qualità” del fondo e di incrementarne il valore (come, ad esempio, quando un fondo asciutto viene reso irriguo da un impianto consortile), mentre non è sufficiente un vantaggio generico, derivante dall’esecuzione di tutte le opere di bonifica, come il miglioramento complessivo dell’igiene o della salubrità dell’aria.
Da questo punto di vista, pertanto, il recente intervento della Corte Costituzionale non ha introdotto alcuna novità concettuale, perché ha dichiarato l’illegittimità di una legge regionale nella parte in cui - art. 23 comma 1° lett. a) Legge Regione Calabria n.11 del 2003 - affermava espressamente che il contributo consortile di bonifica (in particolare quanto alle spese di funzionamento dell’ente) fosse dovuto “indipendentemente dal beneficio fondiario” invece che in presenza del beneficio.
Peraltro, la stessa Consulta nel testo della sentenza, ha espressamente richiamato la precedente consolidata giurisprudenza della Corte di Cassazione, ribadendo che per legittimare l’imposizione deve necessariamente sussistere un beneficio per il consorziato contribuente (che può consistere sia nella fruizione sia nella fruibilità, comunque concreta e non meramente astratta, dell’attività di bonifica) e che tale vantaggio costituisce il criterio fondamentale in base al quale la prestazione patrimoniale può essere imposta.
E’ quindi sempre rimasto del tutto pacifico che in assenza di concreto beneficio il contributo non sia dovuto. Ora, se la sua domanda “è realmente cambiato qualcosa dopo quella sentenza?” si riferisce all’atteggiamento degli enti impositori devo risponderle di no, in quanto non mi risulta che successivamente ad essa alcun Consorzio abbia rinunciato alla pretesa di contribuzione – pur infondata - nei confronti di tutti o alcuni dei proprietari già destinatari dell’imposizione; quanto agli organi giudicanti, mi pare che questi non possano che continuare a tener conto dei principi giurisprudenziali già noti e consolidati, che la Corte Costituzionale ha soltanto confermato. Ma tali organi, evidentemente, possono pronunciarsi solo a seguito di iniziative giudiziarie!"


Ma il contribuente deve anche provare che non riceve alcun beneficio, nel caso voglia promuovere ricorso?
"No, non è il contribuente a dover provare che i suoi immobili (o parte di questi) non ricevono alcun beneficio dall’attività del Consorzio, essendo invece quest’ultimo tenuto a dimostrare la sussistenza dei presupposti della propria pretesa contributiva, tra i quali innanzitutto il vantaggio fondiario concreto e particolare di ciascun immobile assoggettato e che deve derivare dalla compiuta delimitazione dei perimetri di contribuenza all’interno dei comprensori di azione".

Ecco, potrebbe spiegare meglio questo concetto e la differenza tra perimetri di contribuenza e comprensori di azione?
"La Legge prevede che all’interno del loro comprensorio di azione i consorzi possano individuare, con riferimento ad una o più opere di bonifica già realizzate o progettate, uno o più fondi sui quali le suddette opere esplicheranno i loro effetti e quindi sottoporli alla relativa contribuzione: l’eventuale individuazione di tale area, denominata “perimetro di contribuenza”, mediante apposito atto amministrativo da approvare e pubblicare con le procedure di legge (tra le quali la pubblicazione nei bollettini ufficiali regionali) determina una presunzione di sussistenza del beneficio sull’area in questione. In tali ipotesi sarà quindi il contribuente che voglia esimersi dal pagamento del contributo richiesto a dover dimostrare che in concreto non riceve il beneficio che ne costituisce il necessario presupposto".

In una battuta, se i consorzi fanno bene il loro lavoro, sarà del tutto chiaro per chi paga per cosa paga, giusto?
"Sì, ma attenzione: il “perimetro di contribuenza”, la cui approvazione comporta questa inversione dell’onere probatorio, non deve essere confuso con il “comprensorio di azione” o “ambito territoriale di operatività” che hanno evidentemente tutti i consorzi. Quando, come accade in molti casi, la contribuenza viene imposta dall’ente sull’intero suo comprensorio e non risultino individuati dal punto di vista tecnico uno o più perimetri di contribuenza, l’onere della prova del beneficio (e quindi delle opere che lo determinano) rimane a carico del consorzio. La questione, tuttavia, è molto tecnica e non di rado è stata equivocata: alcuni consorzi hanno sottoposto a contribuzione l’intero loro comprensorio, trasformandolo tout court in un unico bacino tributario seppure suddiviso per zone e così hanno tradotto il contributo in un’ulteriore e non prevista imposta fondiaria.
Di fronte alle contestazioni dei contribuenti, i suddetti enti hanno poi sostenuto di potersi giovare della presunzione di esistenza del beneficio avendo comunque individuato il loro “perimetro di contribuenza”, inteso tuttavia il termine (più o meno volutamente) in maniera del tutto imprecisa ed atecnica –perché coincidente con il comprensorio.
La Corte di Cassazione, invece, ha sempre affermato che l’individuazione del perimetro di contribuenza è attività diversa ed ulteriore rispetto all’individuazione del comprensorio (dovendo detto perimetro consistere in un’area interna al comprensorio, delimitata in relazione ad una o più opere di bonifica singolarmente indicate) e che in difetto di tale individuazione per la legittimità dell’imposizione non basta che il bene sia incluso nel comprensorio ma il consorzio deve provare anche che esista un beneficio causalmente derivante al singolo bene dalla sua attività.
Ciò è stato ribadito anche di recente dalla Suprema Corte (da ultimo, con le ordinanze nn. 23246, 23251, 23247 e 23248/2019, pubblicate solo qualche settimana fa) ma i consorzi fanno “orecchie da mercante” e troppo spesso i cittadini rinunciano a contrastare l’illegittima pretesa avanzata nei loro confronti per non esporsi ai tempi ed ai costi dell’azione legale, specie quando le somme richieste sono di modesta entità".


Un agricoltore riceve – magari per la prima volta – un avviso bonario da parte di un Consorzio di bonifica, come deve comportarsi?
"Le aziende agricole che ricevono atti impositivi provenienti da un consorzio di bonifica devono in primo luogo valutare se vi sono in zona opere di bonifica che hanno apportato miglioramenti ai loro fondi incrementandone il valore ovvero hanno consentito di mantenerlo inalterato nel tempo, ad esempio proteggendoli da esondazione o allagamenti; in caso negativo, potranno constestare la pretesa impugnando l’atto entro 60 giorni dal ricevimento dinnanzi alla Commissione Tributaria.
A ben guardare, in verità, anche laddove vi siano davvero opere di bonifica c’è un’altra verifica da compiere: il contributo richiesto è o meno rapportato al beneficio concreto che ne deriva? In molti casi, infatti, manca ogni correlazione tra il vantaggio concretamente esistente ed il tributo richiesto e ciò –a mio parere- costituisce un ulteriore ed autonomo motivo di illegittimità della pretesa di contribuzione: il semplice esame del piano di classifica e di riparto della contribuenza dell’Ente consentirà comunque di dirimere anche questo dubbio, assumendo poi le opportune decisioni!.


Oggi, come ben sappiamo, l’opera dei Consorzi di bonifica è insostituibile, non riguarda solo le aziende agricole, anzi in molti casi consente la difesa di aree ormai urbanizzate, pure assoggettate al contributo di bonifica, ma secondo lei, cosa comporta tutto questo?
"Ha ragione, talvolta i consorzi svolgono compiti importanti a vantaggio della collettività. Il problema però è che essi hanno ormai perso completamente la loro originaria fisionomia: essi sono nati in epoca fascista come consorzi obbligatori tra proprietari terrieri onde consentire la realizzazione forzosa della bonifica, alla quale i privati da soli non avrebbero potuto provvedere, e la loro attività ha reso produttive ed urbanizzabili molte zone d’Italia, sino ad allora paludose ed insalubri.
La loro funzione però è oggi del tutto mutata, la bonifica vera e propria è di fatto finita e tali enti si occupano ormai –oltre che di irrigazione- di ambiente, di tutela idrogeologica e realizzano attività ed opere di interesse generale, quasi sempre con fondi pubblici: il loro funzionamento ed i costi di gestione invece sono rimasti a carico dei proprietari fondiari, perché il tributo continua ad essere quantificato in base alle rendite catastali e pertanto grava soprattutto sui terreni, mentre le aree urbane – che ricevono i maggiori benefici - ne sostengono in minima parte i costi. Oltretutto, soltanto le aziende situate all’interno di un comprensorio consortile subiscono l’imposizione del contributo, che in mancanza di beneficio specifico si traduce in un costo di produzione indebito ed ulteriore rispetto a quelle simili site in zone limitrofe esterne al comprensorio, con evidenti effetti distorsivi anche della libertà d’impresa e della concorrenza".


Come se ne esce?
"Sarebbe evidentemente auspicabile un intervento legislativo in materia che riporti equità tra i contribuenti, mantenendo a carico degli agricoltori quanto effettivamente speso in loro favore e ponendo a carico della collettività i costi relativi ai benefici ambientali. In altri termini, il tributo dovrebbe essere imposto soltanto ai proprietari di fondi che ricevano un beneficio effettivo e tangibile dalle opere consortili, mentre l’attività di monitoraggio e tutela ambientale dovrebbe essere finanziata dalla fiscalità generale. Tuttavia, l’abolizione degli enti di bonifica ed il superamento dell’attuale sistema impositivo – pur inclusi nei programmi presenti e passati di molte e diverse forze politiche - non sembrano alle porte: per ora agli agricoltori vessati dall’ingiusto balzello non rimane che rivolgersi al Giudice tributario, visto oltretutto che la mancata impugnazione della cartella nel termine di 60 giorni dalla notifica cristallizza di fatto la pretesa dell’Ente e la rende nel merito incontestabile".