Ripartendo dal sommario la risposta è "nì". Nel senso che, sì, l'agricoltura ha elevate responsabilità sulle proprie spalle per quanto riguarda l'uso di acqua per le proprie colture. Ma anche nel senso che no: le accuse mosse di sprecare e "consumare" acqua, come pure di influire sugli sprechi alimentari, vanno dall'esagerato al falso.

Per esempio, per demonizzare gli allevamenti bovini si rilancia spesso un numero alquanto elevato, ovvero gli ormai famigerati 15mila litri di acqua per ottenere un solo chilo di carne. Magari appaiando visivamente immagini di terre desertificate e popolazioni sub-sahariane sofferenti per la carenza di acqua potabile. È vero tutto ciò? È sensato? Appunto: nì.

Persino giornali di alta tiratura come il britannico The Guardian, ormai noto per i propri orientamenti filo-ecologisti, ha trattato questo tema con un articolo dal titolo "How much water is needed to produce food and how much do we waste?", tradotto: quanta acqua serve per produrre il cibo e quanto sprechiamo? In sostanza, il tema degli sprechi alimentari viene sovrapposto agli usi di acqua in agricoltura, quasi che i secondi avessero qualcosa a che fare con i primi. Intanto sarà bene chiarire un punto: ciò che si qualifica semplicisticamente come "spreco" non sempre lo è per come noi lo concepiamo.

Ma il tema è complesso e va trattato in modo attento. Quindi, per ragioni di sintesi, in un successivo approfondimento si parlerà proprio dell'acqua, perché anche su tale risorsa c'è molta chiarezza da fare. Per ora ci si limiterà a spiegare meglio il concetto di spreco e, magari, anche le sue origini e cause. Perché di confusione in tal senso ne circola davvero tanta.


Gli sprechi alimentari

Così come in un impianto idraulico vi sono le cosiddette "perdite di carico", così nelle filiere agroalimentari vi sono le "perdite di prodotto". Nel primo caso, anche contando sul più evoluto sistema idraulico possibile, la fisica insegna che se vogliamo fare uscire l'acqua da un irrigatore alla pressione "X", cioè quella necessaria a svolgere il proprio lavoro, dovremo immetterla nel sistema a una pressione superiore, ovvero "X+b", ove "b" dipenderà dalla lunghezza, dalla pendenza, dagli snodi, dal tipo di sprinkler eccetera. La variabile "b" esisterà sempre, anche nell'impianto più moderno ed efficiente.

Se tale sistema non è perfetto, però, si aggiunge anche la voce "c", ovvero gli sprechi veri e propri: perdite, aspersori vecchi e obsoleti, percorsi irrazionali, snodi raffazzonati eccetera. Quindi la pressione necessaria diverrà "X+b+c", dove solo "c" andrà però considerato spreco in senso stretto. La variabile "b", come detto, è inevitabile, ineluttabile, fisicamente impossibile da eliminare alle conoscenze attuali. Non è cioè "spreco", bensì la fisiologica perdita di carico per come l'idraulica ce la insegna.

Qualcosa di simile avviene nelle filiere agroalimentari. Intanto, molti dei frutti e degli ortaggi raccolti vengono scartati già in azienda agricola, perché non conformi ai capitolati della Gdo. Troppo lunghi? Troppo grossi? Troppo piccoli? Un po' deformi? Via, per terra. Perché il consumatore non li vuole. E così nei beans si mettono solo i prodotti che non verranno rispediti indietro dagli acquirenti. Magari anche per evitare che gli acquirenti stessi prendano per il collo i produttori offrendo loro un prezzo che oltrepassa l'insulto per ritirare comunque la merce. Quasi facessero loro un favore.

Al netto quindi degli scarti in campo, veri sprechi non attribuibili comunque agli agricoltori bensì al resto della filiera, se raccolgo 100 pesche, per dire, potrebbe anche darsi che nelle pance degli Italiani ne arrivino solo 60. E le altre 40? Qualcuna si è persa nel tragitto fra il frutteto e la cooperativa, causa urti e gibolli vari. Qualcun'altra si ammuffirà o si danneggerà poi nelle fasi di frigoconservazione e di successivo trasporto. Salerno e Torino sono infatti parecchio distanti e non è colpa di nessuno se chi coltiva pesche sta a Salerno e chi le mangia sta a Torino. Un problema che quasi non esisteva quando eravamo praticamente tutti contadini nelle campagne anziché essere come oggi: cittadini (tanti) che mangiano nelle città quello che viene prodotto nelle campagne dai contadini (pochi).

Altre pesche ancora marciranno nei banconi dei supermercati, lasciate lì troppo a lungo dagli acquirenti. Solo le sopravvissute giungeranno quindi nei frigoriferi dei cittadini, salvo essere talvolta buttate via in parte perché acquistate più del necessario. Ergo, anche per il cibo si tratta di una "X+b+c", ovvero di una perdita di carico mista a uno spreco.

Stranamente, si è diffusa la convinzione che per ridurre la somma di "X+b+c" si potrebbe benissimo ridurre proprio "X", ovvero la produzione. Di solito chi utilizza questo argomentario è ideologicamente schierato contro la chimica agraria e usa l'argomento sprechi per controbattere a chi ricordi che se non si trattano e non si nutrono le colture se ne perde una larga parte, sia in campo, sia dopo. Il ragionamento, farlocco, è il seguente: se tanto di pesche ne mangiamo 60, perché devi usare gli odiati "pesticidi" per proteggere le altre 40? In sostanza, secondo tali posizioni, se non sprecassimo cibo potremmo evitare perfino di usare la chimica (e l'irrigazione).

Falso: se non usassimo la chimica si otterrebbe un calo di produzione, appunto, di alcune decine di punti percentuali già in campo. In sostanza, astenendoci dal trattare i frutteti lasceremmo parassiti e patogeni banchettare con le nostre pesche. E questo sì che sarebbe un vero spreco, perché invece tali perdite le potremmo benissimo evitare. Non farlo è cioè contrario proprio agli intenti originali.

In secondo luogo, non trattandole, le nostre pesche si incanalerebbero lungo la filiera molto più infestate di spore fungine e quindi aumenterebbe anche la percentuale di prodotto persa nella conservazione e nel trasporto (Salerno e Torino restano lontane anche se non si usano "pesticidi"). In sostanza, astenendoci dal trattare, invece di arrivare 60 pesche nelle pance degli Italiani ne arriverebbero probabilmente meno di 30. Oltre 70 sarebbero infatti marcite, o in campo o a valle di esso, disattendendo in tal modo la richiesta quantitativa della popolazione.

L'agricoltura dà infatti al mercato ciò che il mercato chiede, non gli impone mica le proprie produzioni. Per fare calare queste ultime non si deve cioè penalizzare e criminalizzare gli agricoltori: basta semplicemente che cali la domanda. Cioè che la gente mangi meno frutta e verdura rendendo meno necessari trattamenti, irrigazioni e concimazioni. Peccato che così facendo vi sarebbe un danno sanitario gravissimo, perché non devono spiegarli gli agronomi i benefici per la salute di un'alimentazione ricca di vegetali. In sostanza, per fare contenti i pasionari del no-tutto, per abbattere gli sprechi alimentari s'innalzerebbero gli sprechi di anni di vita in salute degli Italiani.

Meditino su tale punto coloro i quali, illudendosi di ridurre gli sprechi, premono per esempio per eliminare del tutto i residui dalla frutta, già oggi ampiamente sicuri con buona pace dello storytelling allarmista. Perché innescare spirali negative in tema di difesa delle colture in pre-raccolta potrebbe solo aumentare le perdite complessive di prodotto (voce "b" dell'equazione) anziché ridurle. Fra cause ed effetti ci sono infatti ben precisi rapporti. Invertirli, scambiando ottusamente le prime per i secondi, non può cioè che condurre al disastro.

Chiarito quindi che no, l'agricoltura ha ben poche colpe per gli attuali sprechi alimentari, anzi li minimizza se lasciata lavorare come si deve, nella puntata successiva si vedrà come anche per l'acqua le cose stiano in modo diverso rispetto all'attuale mainstream dominante, alimentato da una stampa generalista sempre più infestata da falsi miti e fake news di natura ideologica.