Ci sono convinzioni, meglio sarebbe definirle pregiudizi, difficili da scalzare. Alcune più di altre.
Come quelle che riguardano gli allevamenti di animali.

Una fra le tante: negli allevamenti si fa un uso spropositato di antibiotici.
Poi si scopre che le analisi sui residui nelle carni, nel latte e nelle uova mostrano che il 99,7% non ne presenta tracce.
Lo confermano i dati di Efsa a livello europeo.

E quei pochi casi di "non conformità" (questo il termine usato) sono in progressiva riduzione da anni e in molti casi non si tratta di residui di farmaci, ma di inquinanti ambientali. Accade ad esempio per le micotossine o per l'influenza estrogenica di alcune foraggere o per gli steroidi di origine endogena.

Eppure, per combattere la crescita dell'antibiotico resistenza nell'uomo, si guarda con insistenza agli allevamenti.
Per poi lasciarsi convincere ad assumere un antibiotico al primo starnuto o appena il termometro supera la soglia dei 37 gradi di temperatura.

Se è giusto chiedere al mondo veterinario di ridurre l'impiego di antibiotici, con maggiore vigore lo stesso invito va rivolto alla medicina dell'uomo.
 

I pregiudizi

Quello degli antibiotici è solo un capitolo, e nemmeno il più importante, della saga dei pregiudizi.
L'altro è quello che vede sul banco degli imputati i prodotti di origine animale, ora la carne, ora il latte. La prima tacciata di favorire i tumori, il secondo artefice di allarmanti intolleranze.

Fior di studi medici vengono citati per sostenere queste tesi, per poi scoprire che è sempre una questione di quantità e nel caso della carne le responsabilità vanno cercate più nei modi di cottura che nella carne in sé.

Intanto si modificano le abitudini alimentari e la carne viene sostituita da pillole di integratori vitaminici e al posto del latte beviamo acqua "che fa bene alle ossa", come ripete una martellante pubblicità.
 

I profeti di sciagure

Ora con il Covid-19 riemergono antiche ansie e si moltiplicano i profeti di sciagure che con arditi ragionamenti vogliono trovare indiscutibili collegamenti fra allevamento e pestilenze che hanno afflitto e affliggono l'umanità.

E già che ci sono, pervasi da una visione "romantica" dell'agricoltura e dell'allevamento, sono pronti a giurare che sia tutta colpa dei grandi allevamenti.

Comprensibile. Chi non ha cultura zootecnica ed è povero in rudimenti di medicina, vede con sospetto gli allevamenti intensivi, lontani dal modello "naturale". E su di essi punta il dito.


Dove c'è professionalità

Inutile ricordare che proprio in questi modelli si realizzano le migliori condizioni di salute e di benessere degli animali.
Anche quando la concentrazione di animali può apparire enorme.

Proprio in queste realtà si attuano i controlli più attenti e serrati.
Perché la presenza di molti animali impone la massima attenzione nella prevenzione di ogni malattia.
E' sempre in questi allevamenti che più difficilmente possono dunque svilupparsi patologie, specie quelle in grado di trasferirsi all'uomo.

E' poi indiscutibile che la gestione di un grande complesso zootecnico non possa essere affidato a incompetenti.
E se c'è un professionista della zootecnia, costui sa come evitare rischi e complicazioni per sé, oltre che per gli animali.


Troppa confusione

Non altrettanto accade nei piccoli o piccolissimi allevamenti che si tende a confondere come esempio di naturalità.
Come pure negli allevamenti esclusivamente allo stato brado, sui quei pascoli emblemi anch'essi di condizioni ideali, ma difficili da controllare.

Gli esempi non mancano. Prendiamo il caso della peste suina africana in Sardegna. Malattia che non colpisce l'uomo, ricordiamolo.
Da decine di anni si tenta di scacciarla dall'isola con investimenti milionari e spiegamenti di medici veterinari.
Sino a ieri con scarsi risultati. Perché il serbatoio del virus è negli animali bradi, senza controllo. Eliminati quelli, sarà eliminato anche il virus.


Il passato insegna

Sono passati anni, ma tutti ci ricordiamo dell'emergenza vacca pazza.
Un caso di scuola sul terrorismo mediatico, nato sui pascoli inglesi. Poi è stato il turno dell'influenza aviaria e di quella suina.

Entrambe originate in Cina. Dove situazioni di estrema povertà portano le persone a convivere letteralmente con gli animali, che diventano l'unica fonte di sostentamento.

Ora è accaduto con il Covid-19, partendo da un virus che alberga nei pipistrelli. Dal loro habitat naturale li si è portati a stretto contatto con l'uomo, laddove la povertà è la stessa già vista per le influenze di polli e suini.

Ed è accaduto, come ricorda la virologa Ilaria Capua, ciò che già si è verificato millenni addietro con la peste bovina, passata dall'animale all'uomo trasformandosi in morbillo.
A quei tempi gli allevamenti intensivi certo non esistevano, la convivenza uomo-animale forse sì. Dopo millenni, grazie agli allevamenti intensivi e ai controlli sanitari, la peste bovina è stata debellata. Il morbillo no.


Allevatori, grazie

Se ancora oggi, in piena emergenza da Covid-19, possiamo ancora nutrirci in modo equilibrato, con quella modesta quantità di carne che contribuisce a mantenerci in salute, insieme a latte e uova, il merito è di questi allevamenti, tutti al lavoro a dispetto di quanti li denigrano.
A loro il mio grazie. E spero quello di molti altri.