La maggior parte dell’acqua “contenuta” all’interno dei cibi che arrivano sulla nostra tavola, è consumata nella prima parte del processo produttivo, la più lontana dal consumatore: la fase della coltivazione. La quantità totale di acqua “contenuta” nel cibo dipende da molti fattori, tra cui la tipologia di sistema agricolo adottato e le caratteristiche climatiche e del suolo specifiche del sito di produzione, che influenzano la richiesta di acqua delle piante.
In termini di media mondiale, la produzione di 1 kg di carne di manzo richiede una media di 15.415 litri di acqua e la carne prodotta in sistemi intensivi richiede cinque volte più acqua rispetto agli allevamenti al pascolo. 250 grammi di pomodoro contengono 50 litri di acqua virtuale, una pizza margherita ne contiene 1259 litri; produrre 1 kg di pasta richiede mediamente 1850 litri di acqua nel mondo, 1410 in Italia.
“Il consumo di acqua virtuale varia dunque a seconda della dieta – afferma Marta Antonelli, dottoratasi al King’s College London e consulente della Fondazione Barilla Center for Food and Nutrition, coautrice del libro insieme alla dottoressa Francesca Greco, "L'acqua che mangiamo" -. Adottando una dieta di tipo mediterraneo è possibile “risparmiare” più di 2.000 litri d’acqua al giorno a persona rispetto ad altri tipi di dieta. Se la popolazione mondiale adottasse una dieta di tipo “occidentale”, caratterizzata da un elevato consumo di carne, occorrerebbe un aumento del 75% dell’acqua utilizzata attualmente per produrre cibo. Alcuni studi hanno dimostrato che, nel futuro, sarà possibile ridurre l’impronta idrica globale anche in previsione di un grande aumento della popolazione, attraverso un cambiamento nei consumi”.
L’acqua virtuale è anche un oggetto di scambio commerciale su scala globale. Nel caso di una bottiglia di bibita zuccherata, ad esempio, il contenuto di acqua virtuale rappresenterà l'acqua che è stata necessaria a produrre la canna da zucchero utilizzata per produrre il contenuto di quella bottiglia, non solo il quantitativo d'acqua effettivamente contenuto nella bottiglia. L’Italia è il terzo importatore netto di acqua virtuale al mondo, soprattutto a causa del consumo di prodotti di origine animale. I più grandi esportatori netti di acqua virtuale sono: Stati Uniti, Canada, Brasile, Argentina, India, Pakistan, Indonesia, Tailandia e Australia. Tra i più grandi importatori troviamo invece alcuni Paesi del Medio Oriente e Nord Africa, Messico, Europa, Giappone e Sud Corea. I prodotti a cui sono associati i più grandi flussi di acqua virtuale (43%) sono collegati al commercio di cotone, olio di palma, girasole, soia, semi di colza.
Un altro fronte cruciale per il consumo di acqua è quello dello spreco. Ogni anno vengono sprecate circa 1,3 miliardi di tonnellate di cibo, un terzo della produzione mondiale. Ciò comporta anche lo sperpero delle risorse idriche necessarie per la loro produzione. L’impronta idrica degli sprechi alimentari equivale a circa 250 km cubi ogni anno, pari alla portata annuale del fiume Volga, il fiume più lungo d’Europa, o a tre volte il volume del Lago di Ginevra.
“In Italia, la quantità di acqua sprecata a causa del cibo inutilizzato è pari a circa 706 milioni di metri cubi – sottolinea ancora Antonelli -. Di questi, circa il 43% è dovuto a spreco di carne, il 34% a cereali e derivati, il 19% a frutta e verdura e il 4% a prodotti lattiero-caseari. Se consideriamo anche le perdite di alimenti che avvengono durante la filiera alimentare e che non raggiungono mai la distribuzione, il bilancio sale a 1.226 milioni di metri cubi di acqua: una cifra comparabile al fabbisogno annuo di acqua potabile di 27 milioni di nigeriani, o pari a un decimo del fabbisogno minimo di tutta la popolazione africana che non ha accesso all’acqua”.
La riduzione dello spreco alimentare del 50% entro il 2020 è uno degli obiettivi del Protocollo di Milano, un progetto messo a punto nel 2013 dalla Fondazione Barilla Center for food and nutrition con il contributo di oltre 500 esperti internazionali, in risposta ai grandi paradossi moderni sull’alimentazione. Oltre alla lotta allo spreco, gli obiettivi del Protocollo di Milano sono: riforme agrarie e lotta alla speculazione finanziaria sulle materie prime alimentari; lotta concreta a fame e sottonutrizione garantendo l’accesso al cibo per tutti e lotta all’obesità incoraggiando la cultura della prevenzione e l’educazione alimentare fin da bambini.
“Tutti possiamo fare la nostra parte per un uso sostenibile dell’acqua, se siamo consapevoli dei diversi tipi di spreco – conclude Antonelli –. Esiste uno spreco di primo livello: la parte di cibo prodotto che non raggiungerà mai il consumatore ma verrà destinato al macero o alla discarica, o verrà cestinato dal consumatore prima di essere utilizzato, e che si calcola intorno al 30% tenendo conto di tutti i passaggi dalla produzione al consumo. Lo spreco di secondo livello riguarda la scelta degli alimenti sulla base dei metodi di produzione: una bistecca da allevamento non intensivo e sostenibile consuma per essere prodotta un quinto dell’acqua richiesta dagli allevamenti intensivi. Questo è l’ambito in cui il consumatore può giocare il ruolo più importante, scegliendo consapevolmente cosa mangiare. Certo è importante stare attenti anche al consumo diretto di acqua per usi domestici, ad esempio quella che usiamo per lavarci: tale spreco ha tuttavia un impatto di gran lunga meno rilevante rispetto ai primi due e viene definito infatti spreco di terzo livello”.
Un impegno sul quale la Fondazione Barilla Center for food and nutrition lavora dal 2009. Il Protocollo di Milano, che ha raccolto le adesioni di quasi 100 tra istituzioni e organizzazioni pubbliche e private e di migliaia di cittadini privati nel mondo, è uno dei documenti di riferimento per la preparazione della Carta di Milano voluta dal Governo italiano, la cui versione finale sarà consegnata il 16 ottobre al segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki Moon.
© AgroNotizie - riproduzione riservata