La suinicoltura del Nord cerca il rilancio dopo anni di crisi e lo fa scommettendo sulla filiera 100% italiana e sui controlli che già avvengono nel sistema delle Dop, sfruttando il segmento importante del San Daniele. La proposta è stata avanzata da Coldiretti Brescia il 22 dicembre al Centro Fiera del Garda di Montichiari, di fronte a una platea di oltre 300 allevatori.

Sul palco, Mario Emilio Cichetti, direttore del consorzio del Prosciutto di San Daniele, l’assessore all’Agricoltura della Lombardia Gianni Fava, il responsabile del settore zootecnico di Coldiretti nazionale Giorgio Apostoli e il vicepresidente nazionale di Coldiretti, Ettore Prandini, al vertice anche della federazione di Brescia.

Lo scenario di partenza evidenzia una certa sofferenza. “Dal 2008 a oggi – dice Apostoli - nelle stalle italiane la consistenza dei capi allevati è passata da 9.300.000 agli attuali 8.600.000, con una diminuzione dell’8,4 per cento. Con riferimento alle scrofe, nello stesso periodo la flessione è stata del 23%, passando cioè da 750.000 a 578.000”.

In netta diminuzione anche il prezzo di mercato. La media delle quotazioni della Commissione unica nazionale dei suini Dop (156-176 kg) dallo scorso luglio a oggi è di 1,40 euro/kg, mentre nello stesso periodo del 2013 il prezzo era 1,59 e nel 2012 1,67 euro al chilogrammo.
Secondo Coldiretti bisogna puntare sulla tutela e sul rafforzamento degli elementi di distintività della produzione suinicola italiana. “Siamo convinti – spiega Prandini - che senza un chiara distinzione qualitativa delle carni dei suini nati ed allevati in Italia la nostra suinicoltura corra il rischio di soccombere sotto la pressione dei prezzi bassi e della concorrenza sleale. E poi manca una coerente politica qualitativa per riaffermarsi sul mercato interno ed estero”.

Coldiretti propone dunque un piano di rilancio che passa da questi aspetti chiave: una migliore valorizzazione economica del suino nato, allevato e macellato in Italia; il rispetto di pratiche commerciali più trasparenti e il contrasto alle pratiche che evocano l’italianità del prodotto con materia prima di importazione.
E per certificare la carne suina in un percorso in grado di portare valore aggiunto anche nelle tasche degli allevatori, Coldiretti propone un accordo con il consorzio di tutela del Prosciutto di San Daniele, in modo da poter qualificare i tagli freschi partendo da un percorso di tutela già esistente e dunque senza costi aggiuntivi per i produttori.
Per completare il percorso di certificazione, sono allo studio collaborazioni con macelli che lavorano solo suini nati e allevati in Italia, mentre si attende che il consorzio del San Daniele dia parere favorevole al progetto.

Per l’assessore Fava, “la valorizzazione del suino 100% made in Italy, attraverso una catena che garantisce l’origine senza costi aggiuntivi e che cerca di verticalizzare la filiera, coinvolgendo il consorzio di tutela del Prosciutto di San Daniele e la grande distribuzione, secondo una logica più equilibrata di ripartizione della remunerazione, è indubbiamente positiva. Ma bisogna fare in fretta, perché la suinicoltura non ha più tempo di aspettare”.
Si tratta dunque di “un buon punto di partenza, sul quale lavorare – prosegue Fava – perché il mondo della suinicoltura necessita di certezze e deve essere il primo a dire se vuole sopravvivere. E lo dico da assessore della prima regione a livello nazionale per la suinicoltura, con 900 allevamenti, 4,6 milioni di capi allevati e il 39% della carne suina prodotta in Italia”.
Senza l’aiuto di “uno Stato che non c’è più e che convoca i tavoli della filiera suinicola mediamente ogni 4-6 mesi, nel silenzio del governo che, a fronte della proposta della Regione Lombardia di mettere autonomamente sul piatto 20 milioni di euro per la suinicoltura, nemmeno si è degnato di rispondere: serve un cambio di rotta e interrogarsi, innanzitutto, sul valore delle produzioni”.

Se i prosciutti Dop made in Italy subiscono sul mercato la concorrenza dei prosciutti spagnoli, che hanno un prezzo al consumatore fino a quattro volte superiore, sostiene Fava, “vuol dire che i consorzi di tutela non hanno lavorato efficacemente sul piano della promozione ed è necessario fare autocritica, perché significa che si è perso l’obiettivo e che, escludendo gli allevatori dai luoghi dove si decidono le politiche consortili, i risultati non sono stati all’altezza della qualità della filiera. Non è più il momento di gestire i consorzi come cartelli di trasformatori”.

Per risolvere l’attuale crisi della suinicoltura, è convinto Fava, “serve un’azione politica chiara e decisa da parte della rappresentanza, che deve avere proposte concrete da sposare e che deve trovare il modo di superare le proprie divisioni, talvolta più filosofiche che altro”.