La suinicoltura italiana è di fronte ad alcune scelte strategiche che ne condizioneranno il futuro. Perché il mercato è in perenne affanno mentre agli allevamenti si chiedono importanti aggiornamenti tecnologici. Argomenti dei quali si è a lungo dibattuto anche in occasione della recente Fieragricola di Verona. Fra gli elementi di preoccupazione si registra la costante flessione della redditività dei prosciutti a marchio Dop, che si contrappone alla crescita della redditività dei prosciutti privi di tipicità. Lo ha evidenziato Gabriele Canali, direttore del Crefis, il Centro ricerche economiche sulle filiere suinicole dell'Università cattolica di Piacenza. Questo divergere della redditività fra due prodotti analoghi, ma assai differenti, è la conseguenza della fragilità della nostra suinicoltura, incapace di darsi una organizzazione di filiera efficiente. Il confronto con realtà di altri paesi come Gran Bretagna e Spagna, presentati in occasione dell'incontro promosso dal Crefis, sono una testimonianza dei punti di debolezza della nostra suinicoltura.

L’esempio degli altri
In Spagna la pesante crisi della suinicoltura che si è verificata nel 2008 è stata la molla per un profondo ripensamento del modello di interprofessione della suinicoltura spagnola. Così le produzioni di prosciutto Dop del suino "bianco" e del suino “iberico” sono state al centro di una intensa campagna di comunicazione. Il tutto raccogliendo gli sforzi di ogni componente della filiera produttiva, dall'allevatore al macellatore, coinvolgendo al contempo la distribuzione e infine lo stesso consumatore, attraverso le sue associazioni di categoria. Il caso inglese non è dissimile. Qui si doveva anche fare i conti con gli episodi di peste suina che avevano colpito gli allevamenti nel 2000. Non esistendo in Inghilterra produzioni suinicole che possano vantarsi del marchio di Dop, si è presto compreso che una via di uscita dalla crisi del settore poteva essere rappresentato da una etichettatura d'origine capace di valorizzare gli elementi positivi dell'allevamento inglese. Fra questi si può annoverare l'attenzione per il benessere animale, che ha visto vietare già dal 1999 l'impiego delle gabbie negli allevamenti suinicoli. Pur trattandosi di una certificazione volontaria, quasi un terzo della produzione inglese è ormai accompagnata da un'etichetta d'origine.

Il nodo del benessere
Mentre l'arrivo della direttiva comunitaria sul benessere animale in campo suinicolo ha visto gli allevamenti inglesi già perfettamente allineati, non altrettanto è avvenuto in Italia. Le difficoltà di una direttiva basata su conoscenze scientifiche non ancora perfettamente definite è stata tuttavia superata anche grazie all'intensa attività di ricerca svolta nel nostro paese. Lo si è evidenziato durante un incontro promosso in Fieragricola dall'associazione dei suinicoltori (Anas). Dalla ricerca arriva così la conferma che per arrestare la comparsa del cannibalismo fra gli animali non basta introdurre negli ambienti di allevamento catene sospese o tronchetti in legno con i quali “distrarre” gli animali. La soluzione più efficace è la presenza di lettiera in paglia, cosa che però si scontra con problemi di economicità e di gestione. L'applicazione della direttiva sul benessere implica poi la presenza di un servizio di verifica e controllo da parte delle autorità sanitarie. Cosa non così semplice come potrebbe apparire. Alla verifica di parametri oggettivi, come l'assenza di gabbie (vietate) o la densità degli animali (misurabile), si possono sovrapporre altre valutazioni soggettive e come tali opinabili. Tutti aspetti sui quali si sta lavorando per evitare problemi agli allevamenti. Il lavoro dei “controllori” non sarà tuttavia difficile. La gran parte degli allevamenti italiani, lo si è detto anche in occasione di Fieragricola, si sono già adeguati alle nuove norme sul benessere animale. Peccato che il consumatore non lo sappia e che il mondo della produzione sia incapace di darsi un'organizzazione di filiera efficiente come quella inglese o spagnola. Lì si sono già attrezzati per far sapere che i loro suini sono “felici”. Lo si potrebbe fare anche in Italia attraverso un sistema di etichettatura volontaria. Il difficile è mettere d’accordo le varie componenti della filiera, da sempre in contrapposizione.

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