È questo il messaggio che Stefano Berni consegna all’assemblea di Latterie vicentine e che conferma ad AgroNotizie, abbandonandosi in qualche valutazione complessiva sul comparto lattiero caseario, che il direttore generale del Consorzio di tutela del Grana Padano conosce molto bene. Bisogna agire in fretta, ma non frettolosamente. E pensare che “i 40 centesimi e oltre per litro di latte non torneranno più”, afferma senza giri di parole Berni.
Direttore Berni, lei ha detto che ci sono troppi consorzi e che bisogna razionalizzare il sistema?
“Non proprio. Non penso che si debbano cancellare consorzi esistenti, che hanno una funzione specifica nei confronti del prodotto. Però è giunto il momento di pensare a razionalizzare alcuni servizi, per ridurre le spese”.
A quali si riferisce?
“Penso ai servizi di tutela e monitoraggio del prodotto in Italia e all’estero. Noi come Consorzio del Grana Padano spendiamo moltissimo, altre realtà più piccole non riescono a sviluppare queste attività con la stessa forza. Ma anche altri servizi potrebbero trovare sforzi comuni”.
Quali?
“Pensiamo alla logistica, alla comunicazione o al marketing, che potrebbero essere concentrati in strutture comuni, perché ne aumenterebbero efficacia e ridurrebbero drasticamente i costi. E poi potrebbero trovare condivisione alcune formule di assistenza legale, con riferimento a quelle valutazioni legate alle evocazioni o alle frodi: parliamo di fattispecie identiche per tutti. Oggi ci sono dei doppioni su questi servizi, svilupparne uno unico diluirebbe molto i costi e aumenterebbe l’efficacia dei controlli e la penetrazione sui mercati. E su molti aspetti si può pensare di avere servizi comuni non soltanto per i consorzi del settore lattiero caseario, ma anche di altri prodotti di qualità”.
Le istituzioni quale ruolo dovrebbero avere?
“Il pubblico, a livello europeo, nazionale e regionale, dovrebbe sostenere tale disegno e orientarsi a finanziare solo i progetti che vanno in questa direzione. A partire dalle stalle, è ora di smetterla di dare soldi a chi vuole ampliare la stalla, è molto meglio selezionare e sostenere chi razionalizza e innova. Le istituzioni non possono non stimolare un percorso simile, e allo stesso tempo dovrebbero impegnarsi a sostenere progetti consortili aggregati”.
Lei ha fatto riferimento anche alla fine delle quote latte, definendo il passaggio al libero mercato come “una bomba atomica per il sistema lattiero caseario”…
“È così. Occorre una razionalizzazione diversa nel sistema. Se non poniamo correttivi, parecchie stalle chiuderanno definitivamente. Il mondo, dopo l’abbandono delle quote latte è radicalmente cambiato, ma il sistema non si è adeguato. Fatte le debite proporzioni, lo scandalo del metanolo nel vino assomiglia un po’ allo scenario post quote latte di adesso. Il mondo del vino ha reagito, riducendo le quantità prodotte e scommettendo su una maggiore qualità. È quello che dovrà fare anche il settore lattiero caseario, che come il vino deve fare i conti, almeno nel mondo occidentale, con una diminuzione dei consumi, alla luce degli attacchi discutibili di quei movimenti che condannano senza appello carni rosse e formaggi”.
Si immaginava una crisi così accentuata per il settore?
“Tutto questo il sottoscritto era, se non l’unico, tra i pochissimi che scriveva sulle varie riviste di settore e attraverso circolari interne agli associati quello che sarebbe successo. Allora io ero considerato eccessivamente pessimista, ma se vado a riguardare quegli scritti ero molto vicino a quanto poi accaduto. Avevo previsto con la fine delle quote latte un aumento produttivo e un calo dei prezzi, ma mi sbagliavo per difetto, perché nel 2013, con il mercato del latte in ascesa, preconizzavo un prezzo post-quote intorno ai 35 centesimi”.
Non sbagliava.
“Invece sì, perché oggi siamo addirittura sotto quel prezzo. E non so se essere arrabbiato con me stesso, per non essere stato abbastanza convincente nel 2013-2014 o se essere arrabbiato con il sistema, che non ha voluto leggere i segnali in controluce e non ha voluto prepararsi a un cambio radicale di scenario, prendendo per tempo le adeguate contromisure.
Ricordo bene che nel 2013 la maggior parte degli interlocutori mi rispose che non ci sarebbero stati problemi con la fine delle quote, perché l’incremento produttivo sarebbe stato modesto e che sarebbe stato assorbito dalla maggiore richiesta delle polveri di latte a livello mondiale. Io, al contrario, ero fermamente convinto che sia i vertici europei che quelli italiano avessero poca lungimiranza, che mescolata alla mentalità dell’allevatore medio, refrattario a fare programmazione a lungo termine, ha aggravato una crisi che avremmo comunque subito. Ma con minore sofferenza”.
Pensa che si debba introdurre di nuovo un modello di quote produttive?
“Non posso sperare che a livello europeo reintroducano il modello delle quote, che non introdurranno, ma serve un nuovo sistema, che dovrebbe suonare più o meno così: io non ti do una multa se produci di più, ma ti do un prezzo diverso. Deve esserci in prospettiva anche per l’allevatore la libertà di produrre, ma allo stesso tempo la consapevolezza che una parte di produzione deve avere un valore di remunerazione pieno, mentre un’altra parte dovrà essere molto più legata alla volatilità del mercato”.
Se ne è parlato recentemente, anche in cooperativa, ma alcuni soci non hanno gradito.
“Non entro nel merito dei singoli casi, ma rilevo che rispetto a tutte le 142 latterie del Grana Padano, quella che ha registrato un incremento produttivo minore e dunque ha registrato risultati molto interessanti è stata Lattebusche, che a suo tempo ha stabilito di dare agli allevatori il 100% della valorizzazione del latte sulla base della loro produzione storica, affidata a un meccanismo che sarebbe troppo lungo da spiegare qui, e un valore dell’80% alla parte eccedente tale soglia. D’altronde è intuitivo: il latte non destinato ad alta valorizzazione, come possono essere le Dop, deve essere commercializzato come latte spot e, dunque, deve essere pagato così. Ma non serve multare i produttori.
Un discorso analogo lo ha applicato da diverso tempo la più grande cooperativa lattiero casearia della Francia, Sodial.
Ed è anche il modello del Grana Padano: il caseificio produce quello che vuole, ma se si eccede rispetto al piano produttivo adottato dal consorzio, si paga progressivamente di più. Sono risorse necessarie a conquistare nuovi mercati e, in base a criteri proporzionali, chi ha contribuito maggiormente si vede riconoscere più spazi sul nuovo mercato. È questa la filosofia che dobbiamo adottare nel mondo nuovo del latte”.
Quali sono i difetti principali che imputa al sistema lattiero caseario?
“Essenzialmente il nostro sistema ha due gravi lacune: l’incapacità di reagire finché non ha toccato il fondo del barile e la propensione ad auspicare interventi pubblici per aiutare i momenti di difficoltà. Questo perché storicamente ha sempre contato sugli strumenti pubblici, ma sono convinto che il sistema non debba affidarsi passivamente all’aiuto pubblico”.
Qual è il suo giudizio sulle quote latte?
“Le quote latte, che ho contestato nella loro applicazione italica, disastrata e mal gestita, avevano una ratio economica fondante che era ottima. Di questo sono ultra-convinto”.
L’Ocm latte potrebbe essere un’opportunità?
“Si dovrebbe partire dal quadro generale per arrivare a una radicale modificazione. Anche in questo caso il modello è il vino.
Se guardo le aree vicine alla sede del Consorzio del Grana Padano, qui a San Martino della Battaglia, osservo la crescita di aree come la Franciacorta, la Valpolicella, il Lugana. Un’organizzazione di grande successo ha trascinato il mercato e i prezzi dei vigneti. Poco più in là, il Prosecco ha battuto per numero di bottiglie lo Champagne. E mi rendo conto che la risposta più sbagliata è stata quella della stalla, che ha aumentato la produzione per spalmare l’incidenza dei costi unitari. Come logica era comprensibile, probabilmente gli allevatori sono stati spinti dalla necessità di spalmare i costi su maggiori quantità di latte, per abbassare l’incidenza dei costi sul litro di latte. Invece bisogna migliorare le performance”.
In che modo?
“Bisogna capire che il latte italiano non può competere con quello irlandese e che, dunque, non possiamo spingerci sulla strada delle commodity, perché altrimenti il nostro prodotto verrebbe sostituito da latte a minor costo. Dobbiamo piuttosto orientarci su una diversificazione del prodotto e sulla qualità”.
Che cosa possono fare gli allevatori?
“Produrre di meno e valorizzare la massima qualità del latte e delle nostre stalle, che oggi hanno ancora importanti spazi di miglioramento nella razionalizzazione dei costi di produzione. A marzo dello scorso anno abbiamo individuato, attraverso il progetto FiliGrana, che significa Filiera del Grana, le aree più soggette a margini di miglioramento dei costi. E solo una più corretta gestione del silomais porterebbe a margini di miglioramento compresi tra 1,9 e 6 centesimi per litro di latte. Purtroppo un numero troppo alto di stalle non ha la precisa consapevolezza delle diverse voci di costo legate alla produzione del latte. Comunque, se posso ritornare ai concetti iniziali, sa qual è il mio sogno?”
Quale?
“Il mio sogno è che si arrivasse a un’unica realtà aggregata dei due consorzi del Grana Padano e del Parmigiano-Reggiano. Non sto ragionando pro domo mea, non mi sto candidando a gestire io la nuova realtà, che avrà tempi di realizzazione e, ancora prima, di dialogo, non immediati. Guardo al futuro, però, e penso che la strada sarà quella di una maggiore sinergia fra i due formaggi, che pure dovranno mantenere la loro identità”.