C’erano un volta i comitati studenteschi. Quelli che tra un’occupazione universitaria e l’altra passavano le notti a ciclostilare comunicati da distribuire il giorno dopo, magari reclamando il 18 politico oppure tuonando contro il numero chiuso.
Il ’68 è ormai lontano. Diversi fra quei giovani ribelli son pure divenuti agiati Parlamentari e oggi vivono grazie ai relativi vitalizi d’oro. I tempi sono quindi cambiati, ma nel campo della comunicazione l’approccio mediatico del ciclostile pare un “evergreen”. Oggi però, invece d’indolenzirsi la spalla roteando all’impazzata un’obsoleta manovella, si usa internet. In effetti, i copia-incolla da una pagina web all’altra sono molto più adatti alla sedentaria società moderna. E così, ogni contributo posto in rete finisce con l’essere moltiplicato all’infinito, senza più possibilità di riprenderne il controllo.

Non pare sfuggire a questo trend nemmeno Coldiretti, la quale prosegue nella propria crociata anti-ogm. Una crociata sostenuta pubblicando comunicati che per certi versi poggiano tutti sulle medesime affermazioni: il 76% degli Italiani non vuole gli Ogm e le multinazionali “propagandano proprietà miracolistiche” di colture che rappresenterebbero invece un grave rischio per la salute, per l’ambiente e per la sopravvivenza dei prodotti Igp dell’agroalimentare italiano.
Se in Friuli venisse coltivato mais Bt, resistente alla piralide, appaiono infatti terribili i rischi per il Pecorino sardo, il Fagiolo zolfino e la Cipolla di Tropea. Per non parlare dei crolli verticali nelle vendite di Brunello e Parmigiano...
Si potrebbe ora proseguire l’articolo con un bel “ironia a parte”, ma il fatto è che si rischierebbe di non far capire ai lettori se l’ironia è quella del giornalista che scrive su AgroNotizie oppure se è di Coldiretti stessa. Perché in effetti fa un po’ sorridere che in ben quattro comunicati anti-biotech l’associazione riporti sempre le medesime affermazioni, le quali a suon di replicarsi hanno perciò assunto l’odor d’inchiostro di quei ciclostilati dei Tempi che furono.
 
Come detto poc’anzi, ogni qualvolta il sindacato giallo-verde commenti una notizia sul biotech non perde occasione per ricordare che il 76% degli Italiani è contrario agli Ogm. Otto su dieci. A volte, bontà loro, prima di scrivere “otto” viene apposta la parola “quasi”. Non nei titoli, ovviamente, i quali devono colpire i lettori e ciò viene più facile se non si guarda troppo ai numeri.

I motivi per cui tre quarti degli Italiani parrebbero contrari agli Ogm sono ben chiari e su questo Agronotizie ha già pubblicato un pezzo nel novembre 2012. In quel articolo si presentavano i risultati di una ricerca svolta da Renato Mannheimer, presidente Ispo: un sondaggio impietoso che dipingeva per il Bel Paese un quadro di sostanziale ignoranza sul tema Ogm. Solo il sette per cento degli intervistati poteva qualificarsi come “conoscitore” dell’argomento, mentre il rimanente 93% si presentava molto lontano dal raggiungere perfino la sufficienza. Basti pensare che solo il 48% del campione conosceva almeno il significato dell’acronimo “OGM”. Più della metà o non lo sapeva o non ha risposto. Un vero disastro.
Nonostante l’avvilente analfabetismo scientifico, il Popolo italiano viene sempre tirato per la giacchetta quale alibi anti-biotech. Forse perché quanto ad argomentazioni scientifiche il fronte anti-ogm continua ad annaspare senza mai riuscire a comporre un benché minimo dossier di malefatte con cui dimostrare che si, avevano ragione loro. Nulla di tutto questo: solo tanta disinformazione e talvolta perfino terrorismo, come avvenne ai tempi del famoso studio di Gilles Séralini sulla cancerogenicità del mais gm. Studio rivelatosi poi una fanfaluca e ritirato perfino da Elsevier, casa editrice della rivista che aveva avuto la malaugurata idea di pubblicarglielo.
 

Alla ricerca della coerenza perduta

 
Con buona pace di quel 76% di Italiani, tirato in ballo a ogni pie’ sospinto, la recente serie di comunicati anti-ogm parla sostanzialmente di tre colture: patata, mais e mela.
Contro la prima il Sindacato esultò per la decisione del Tribunale dell’Unione Europea di annullare le autorizzazioni ricevute dalla patata Amflora di Basf. Ciò sarebbe accaduto per colpa di alcuni inghippi sulle norme procedurali necessarie all’autorizzazione stessa. Ovviamente, nell’articolo vennero anche stigmatizzate le “proprietà miracolistiche propagandate dalle grandi multinazionali che producono ogm”, come pure venne ribadito che il 76% degli Italiani (otto su dieci) avrebbe “accolto positivamente” questa decisione (sic!). Forse quel giorno sarò stato all’estero, perché a me nessuno ha chiesto cosa ne pensassi della patata Amflora e non ho potuto quindi né gioire né lamentarmi per tale decisione. Dove quindi fossero tutti questi Italiani esultanti lo sa forse solo Coldiretti.
Chiusa la festa sulla bocciatura di Amflora partì quindi la telenovela del mais gm di Vivaro (PN), seminato e raccolto nel 2013 da Giorgio Fidenato, Presidente del Movimento Libertario e favorevole agli Ogm. Fidenato aveva infatti seminato un ibrido di mais Bt nei propri campi, in piena provocazione all’oscurantismo regnante in Italia verso il Biotech. Chi visitò gli appezzamenti friulani poté anche fotografare le sonore differenze fra mais Bt e convenzionali, sia in termini di sanità delle piante, sia di ricchezza e sanità delle pannocchie. Immagini che permettevano anche di capire perché in Italia i test sugli Ogm siano sgraditi a coloro che sostengono che questi ibridi non aiuterebbero gli agricoltori: a chi ha visto risultati concreti, infatti, di balle non se ne può raccontare più.
E ancora il 76% ritornò a galla, inaffondabile come un tappo di sughero, sia nel pezzo pubblicato a ottobre 2013, sia in quello di novembre. In quest’ultimo, Coldiretti calò addirittura l’asso titolando: “OGM: Coldiretti, contaminazione in Friuli al 10%. E’ disastro ambientale”. Nel testo poi si leggeva che il 10% era riferito ai campi limitrofi, ma intanto il giochino del titolo “bomba” aveva funzionato. Infatti, la scaltra boutade obbligò al chiarimento perfino il Corpo Forestale dello Stato, il quale aveva stimato il livello di contaminazione da polline gm intorno ai campi "incriminati": in un comunicato successivo all’articolo targato Coldiretti, i Forestali dovettero ribadire che la contaminazione era solo nelle aree immediatamente confinanti con i campi Bt. Si parlava di pochi metri, peraltro, mica di chilometri come si vuol far sempre credere. Parlare di disastro ambientale in Friuli aveva quindi lo stesso senso di paragonare un peto alla nube tossica che sommerse Seveso di diossina nel 1976. Forse a tanto clamore non sarebbe arrivata nemmeno Greenpeace nei suoi momenti più aulici.
 
Finita (per ora) la querelle sul mais, tocca oggi alle mele. Già, perché un’azienda canadese, la Okanagan Specialty Fruits, ha messo a punto le Arctic® Apple, un tipo di mele modificate geneticamente per non imbrunire dopo il taglio. Nulla di transgenico, peraltro: in queste mele Golden e Granny Smith sono stati banalmente silenziati i quattro geni che codificano per l’enzima polifenol-ossidasi, responsabile del viraggio al bruno dei succhi cellulari liberatisi dopo un morso, un taglio oppure un urto. In altre parole le Arctic® Apple non sono altro che normalissime mele che hanno semplicemente “dimenticato” come produrre quell'enzima. Un enzima che causa perdite di valore sensibili: basti pensare alle difficoltà che incontrano le industrie alimentari produttrici di snack a base di mele, fresche o disidratate, dovendo lavorare frutti che imbruniscono in pochi minuti. E a nessun consumatore, nemmeno se appartiene a quel famoso 76%, piace l’idea di acquistare frutta con qualche gibollo bruno o con le superfici che ricordino quelle di una mela recuperata in discarica.
Nell’articolo messo on-line da Coldiretti, s’indovini un po’, vengono citati i “quasi 8 italiani su 10” e “il rincorrersi di notizie miracolistiche sugli effetti benefici delle nuove modificazioni genetiche”. Non sono mancati ovviamente i richiami alla difesa dei prodotti Igp, quelli di cui tanto fiera va la Val d’Adige e tutte le altre aree italiane ove si coltivino mele.
Divertente però notare che nel medesimo articolo si citino anche “patatine fritte resistenti ai parassiti”, una vera notizia bomba per le mamme che vogliano mettere a dieta i propri bambini più cicciottelli.
Del resto, sembra una battuta in puro non-sense Pozzettiano anche il tormentone sul fatto che “gli OGM attualmente in commercio riguardano pochissimi prodotti (mais, soia e cotone) e sono diffusi nell’interesse di poche multinazionali senza benefici riscontrabili dai cittadini”.
E la colza? E l’erba medica? E la barbabietola da zucchero? E il riso tollerante alle acque salmastre, oppure capace di produrre vitamina A? E la papaya resistente ai virus, senza la quale nemmeno le papaye Bio oggi sarebbero sopravvissute alle epidemie? In Cina coltivano anche pioppi gm, come pure esistono zucchini modificati per resistere anch’essi ai virus. Proprio nel sito Coldiretti si è parlato anche di patate come Amflora e oggi è una mela a causare le ire del bellicoso sindacato italiano. Una mela che per giunta è figlia di una società che non si può certo definire una Monsanto, una DuPont o una Syngenta.
Quindi, comparando i diversi comunicati, appare contraddittorio affermare che gli ogm sono solo mais, soia e cotone, come pure fuorviante risulta l'accusa agli Ogm di essere prodotti solo per il business dei colossi multinazionali, perché la Okanagan Specialty Fruits fa mele e non ha certo quelle dimensioni. Di utilità pratica le sue mele anti-imbrunimento ne hanno invece da vendere. Si perdoni il doppio senso. E devono essere in qualche modo utili anche tutti gli altri Ogm, dal momento che in soli 17 anni sono passati da 1,7 a 170 milioni di ettari. I casi sono quindi due: o i commerciali delle multinazionali sono in realtà dei subdoli fachiri che padroneggiano le pratiche dell’ipnosi, oppure sono le filiere agroalimentari del resto del Mondo che trovano vantaggioso coltivare ibridi gm, i quali non millantano né fanno miracoli: semplicemente funzionano, mantengono ciò che promettono e quindi vengono coltivati da un crescente numero di agricoltori. Tranne che in Italia, ovviamente.
 
Coldiretti farebbe quindi bene a leggersi, non si dice un trattato di genetica o di biologia molecolare, ma per lo meno i propri stessi comunicati. Perché contraddirsi da soli, e nel giro di poche righe per giunta, non è mica cosa furba. E peraltro on-line si può correggere tutto anche dopo averlo pubblicato. Sempre che non vi siano quelli come il sottoscritto che per prudenza si fanno sempre un pdf delle pagine web su cui intendono scrivere un pezzo.
Non si sa mai…