Per quanto riguarda il mercato interno sappiamo che gli italiani sono attaccatissimi ai prodotti "made in Italy", soprattutto quando sono da mettere sotto i denti. In una recente indagine di mercato compiuta da Cetelem/Banca Paribas risulta poi che i prodotti locali sono preferiti e apprezzati dall'89% dei consumatori di 17 paesi europei.
Queste considerazioni spiegano l'incredibile quantità di prodotti alimentari "made in Italy" taroccati, come anche la formidabile pletora di prodotti "italian sounding" presenti sulle tavole di tutto il mondo; anche, si guardi bene, in Italia.
Da qualche tempo abbiamo infatti segnalato che vi sono tanti operatori esteri che hanno la sfrontatezza di usare il tricolore (attenzione: non lo diciamo per trito e becero nazionalismo) o dizioni variamente italiane per spacciare sul territorio nazionale prodotti (e addirittura supermercati) che di italiano hanno ben poco.
Qui bisogna parlare di filiera.
La lotta giustamente compiuta da alcuni per valorizzare i grani italiani nella pasta ha avuto un buon successo, un successo foriero di bei risultati di mercato, per l'agricoltura e anche (guarda un po') per l'industria: chapeau.
Adesso bisogna continuare con altre filiere.
Ci vengono in mente, per esempio, quella lattiero casearia e quella dello zucchero. Due filiere che avrebbero alla base due prodotti cari nelle rotazioni per noi agricoli (ormai) imbiancati: erba medica e barbabietola. Due prodotti la cui coltivazione è andata in caduta libera negli ultimi decenni: le storie sono (tristemente) note.
Due prodotti che sono però anche alla base di filiere fondamentali per l'agricoltura, il paesaggio agrario e l'offerta alimentare italiane.
Iniziamo a parlare di filiere.
Italiane, please.