Oggi si è pensato di andare oltre, rivolgendoci a qualcuno che della disinformazione ha fatto il proprio mestiere, affinando le tecniche comunicative atte a massimizzare le preoccupazioni dei lettori, o dei telespettatori, senza mai esporsi per giunta a problemi legali. Perché anche cavarsela nei tribunali è un'arte, al pari della disinformazione, quindi le due cose devono procedere di pari passo.
Ergo, che la parola vada a Lui: al professionista della disinformazione, affinché ci riassuma gli espedienti e le modalità comunicative grazie alle quali alimenta deliberatamente un vero e proprio odio nei confronti di chi produce cibo per tutti. E senza pagarla mai, per giunta.
Caro il nostro Disinformatore, ci spieghi: cosa La muove all'operato in cui è divenuto nel tempo maestro? Sempre che non Le dispiaccia essere chiamato Disinformatore…
“Ma si figuri, faccia pure. Tanto siamo su una rivista che nessuno dei miei fans leggerà mai. La qualifica di Disinformatore professionale direi quindi che mi onora e gratifica. Significa che il mio mestiere lo so fare molto bene”.
Su questo gliene diamo atto. Ma potrebbe elargirci qualche perla di saggezza riguardo al suo, diciamo così, mestiere?
“Guardi, iniziamo col dire che disinformare e allarmare la gente è un lavoro molto più complesso di quanto si pensi, sebbene col tempo diventi facile. Sa com'è, l'esperienza fa la differenza. Mille dettagli vanno però considerati, al fine di confezionare dei servizi choc che poi facciano parlare per giorni sui social e su altri media. In questo, pensi, ci aiutano spesso le vittime stesse delle nostre, chiamiamole così, ‘inchieste'. Nostri complici, consapevoli o inconsapevoli, sono per esempio gli agricoltori, i tecnici, gli industriali e perfino certi scienziati che traggono vantaggio, o pensano di trarne, da siffatte comunicazioni di parte. A volte per mero vantaggio espositivo, poiché la fame di fama è una brutta bestia, oppure perché sussiste una vera e propria convenienza economica, personale o professionale, nel cavalcare e talvolta fomentare il nostro stesso operato”.
Si spieghi meglio: se voi sfornate a ritmo di carica i millemila servizi anti-agricoltura, anti-zootecnia, anti-tutto, sarebbe in fondo colpa nostra?
“No, non ‘vostra' in senso lato. Ma di alcuni di voi senz'altro. Per esempio c'è chi ha basato la propria carriera, anche universitaria, sui temi eco-bio-naturisti, quindi ha tutto l'interesse che noi si confezionino servizi che demonizzino i pesticidi di sintesi, oppure gli allevamenti intensivi, o ancora gli Ogm. Insomma, tutti quegli avvelenatori di pozzi che per uno strano meccanismo sociale appaiono come la parte sana della discussione agli occhi del nostro utente medio. E infatti compaiono spesso nei nostri servizi come testimonial ‘buoni' da contrapporre a quelli ‘cattivi'. Questi ultimi, invece, vanno ovviamente fatti percepire come servi delle multinazionali o di qualche non meglio precisata lobby. Anche il nostro atteggiamento verso gli uni e verso gli altri sarà quindi diverso: se intervisto uno dei ‘buoni', per esempio, non lo contraddirò mai mentre racconta le sue stupidaggini. Né gli chiederò prove di quello che dice, per quanto balzane e gravi siano le sue affermazioni. Anzi: magari annuirò tutto serioso col microfono in mano, contribuendo con il mio assenso a corroborare quelle testimonianze, anche le più false e tendenziose. Al contrario, se l'intervistato è un esponente dell'industria lo incalzerò con domande sibilline, le cui risposte so bene essere complesse e quindi perdenti in una trasmissione tv, dove in poche battute si devono liquidare temi importanti. Lo farò quindi passare per uno che sta sul banco degli imputati, lo mostrerò esitante, messo all'angolo. Userò solo quel minuto o due in cui dice cose a cui io posso attaccarmi, omettendo il resto dell'ora e mezza dell'intervista. Il sapiente taglia e cuci di redazione, del resto, non s'improvvisa mica su due piedi sa?”.
Eccome se lo so. Per non parlare della selezione dei testimoni fra la gente comune…
“Ovvio. Vuole mettere l'impatto di una mamma che davanti ai microfoni afferma di aver perso un figlio per una grave malattia dovuta ai pesticidi? Poi magari si scoprirà che s'è inventata tutto di sana pianta, ma intanto il botto grosso l'abbiamo fatto noi, mica Lei con i suoi dossier tossicologici pubblicati a posteriori. Nulla è infatti più utile ai nostri scopi di un signor o di una signora Laqualunque che spara opinioni o che porta testimonianze tutte da verificare”.
Appunto: la verifica delle fonti. Sa, quella cosa che a noi giornalisti viene giustamente inculcata un giorno sì e l'altro pure? Nelle Sue trasmissioni dove va a finire?
“Ah! Ah! Eccone un altro che parla di verifica delle fonti. Ma in che mondo vive? L'importante è sparare numeroni belli grossi. Quanti pesticidi e concimi si adoperano in Italia? Zàn! Spariamo una cifra che non sta né in cielo né in terra: 200 o 300 volte quella reale. Tanto poi se qualche rompiscatole ci martella di mail con i numeri veri a noi basta fare una timida rettifica qualche giorno dopo, quando ormai non interessa più a nessuno. E intanto il gol l'abbiamo fatto ancora noi. Si rassegni”.
Certo però, anche voi… se vi informate presso dei cialtroni, magari pure interessati, ovvio che poi spariate numeri fuori dai coppi.
“E secondo Lei da chi ci dovremmo informare per sparare numeri a casaccio? Da Lei? Neanche iniziamo, perché di tempo da perdere mica ne abbiamo. La verità, intesa nella sua essenza fattuale, nel nostro mestiere non paga, mai. E poi, suvvia, a chi non sta sulle scatole la grande industria, la grande lobby, la grande multinazionale? I cosiddetti poteri forti, che poi così forti non sono mai, viste le sberle che possiamo dare loro restando pressoché impuniti”.
Vedo che già coi termini si sta scaldando i muscoli…
“Certo. Se uno lavora per una multinazionale va da sé che sarà subito visto male da chi ci segue, poiché di solito il nostro utente medio non capisce un'acca di dinamiche industriali ed economiche, né locali, né tanto meno globali. Figuriamoci, non capisce nemmeno il perché oggi viva il doppio del suo bisnonno, né comprende da dove arrivi la sua salute, il suo benessere e perfino il suo cibo. E a noi piace vincere facile, che crede? E poi, un po' di invidia per chi ce l'ha fatta, non ce la vogliamo mettere? L'odio per chi è più grosso di te, o per chi è più ricco? Le bassezze umane sono fra le nostre migliori alleate”.
Triste ammetterlo, ma devo darLe ragione su questo: l'odio e l'invidia a prescindere dei piccoli verso i grandi avvelena la società a ogni livello. Figuriamoci nel mio settore. Però, sebbene il vostro target sia ben predisposto a credervi, anche i messaggi dovranno comunque essere ben studiati, no?
“Ma guardi, Le risponderei ‘nì'. Intanto a noi non serve spiegare: basta narrare. La verifica dei fatti, come appena detto, non ci tocca se non marginalmente e quando i fatti collidono con i nostri obiettivi li omettiamo o li minimizziamo e via, con un filo di gas. Tipo: parliamo di pesticidi e di Adi, l'Acceptable daily intake, cioè la dose sicura per l'uomo? E noi la ribattezziamo ‘dose tossica per l'uomo', che se la nominassimo correttamente visto mai che la gente si rilassi? Tanto se qualcuno ce lo fa notare lo facciamo passare per errore in buona fede. Un banale refuso, insomma. E che vorrete mai che sia scambiare una dose innocua con una tossica, suvvia…”.
Ma non vi sentite nemmeno un po' in imbarazzo quando capitano queste cose? Mica sono svarioni da poco.
“E che crede che non lo sappiamo? Tanto noi ci rivolgiamo alle pance della gente, mica alle teste. Spaventare è molto più facile di rassicurare, anche perché non serve avere prove certe di quello che diciamo, bastando solo l'insinuazione del dubbio. Se nei nostri servizi citiamo per esempio che Iarc ha classificato probabile cancerogeno glifosate, Lei cosa pensa?”
Penso che è vero: Iarc ha in effetti operato così. Ma tutte le agenzie mondiali hanno detto il contrario, perfino l'Oms.
“E bravo ingenuo! Ma noi mica lo diciamo, se no addio pubblico. Oppure se lo diciamo, giusto per far credere di essere super partes usiamo la tecnica del ‘false balance', cioè quella di fare apparire la scienza divisa fra correnti di pensiero diverse ed equipollenti: Iarc contro Efsa, per esempio. Tutto il resto del mondo non lo riportiamo mai e così la gente pensa ci sia un equilibrio fra posizioni scientifiche quando invece non ve n'è affatto. C'è uno studio che sostiene un danno sulle api? Noi mandiamo in onda l'intervista al ricercatore che l'ha sviluppato, dandogli ogni spazio possibile per raccontare le proprie gesta. Esiste invece un altro studio, fatto magari in condizioni molto più realistiche che dimostra che quel prodotto, usato nel modo corretto, alle api nulla fa? E noi banalmente lo ignoriamo. Cioè si oscurano con disinvoltura le ricerche scomode dando spazio solo a quelle funzionali ai nostri obiettivi. Ripeto: false balance, in una parola: risolve”.
Certo che di pelo sullo stomaco ce ne vuole tanto. Ma operativamente come fate?
“Non ci vuole poi molto: anche in caso non si possano omettere ben precise evidenze scientifiche, ci basterà schierare uno scienziato che dice bianco contro uno scienziato che dice nero e la gente crederà sia un dibattito aperto ed equilibrato. A quel punto noi, in qualità di arbitri della partita, diamo una spintarella alla tesi che ci siamo prefissati di sostenere e il gioco è fatto. Tanto, mica lo sa la gente che gli scienziati che dicono bianco sono quattro gatti, per giunta male in arnese, mentre quelli che dicono nero sono migliaia e hanno con sé la forza dei numeri. Un giochino che funziona perfino coi cambiamenti climatici o con gli Ogm: la stragrande maggioranza della letteratura scientifica dimostra una cosa, ma noi, se vogliamo, possiamo far credere che quattro pubblicazioni messe in croce, di segno contrario, possano controbilanciare la partita. E pensi, la cosa funziona anche quando il confronto è fra scienziati e persone laqualunque: i famosi laureati alla Google University”.
Quelli che leggono qualche pagina web a casaccio e pensano di sapere tutto di un argomento?
“Quelli! Che per noi sono una vera manna. Perfino in tal caso vinciamo, poiché la gente darà più credito a chi sostiene teorie allarmiste, pur non avendo la benché minima credibilità per farlo, rispetto a chi quelle teorie le avversa con la forza dei numeri. Pensi alla puntata di Virus in tema di vaccini, in cui Nicola Porro pose a confronto Roberto Burioni, noto virologo, con Red Ronnie, critico musicale, ed Eleonora Brigliadori, attrice. Scienza contro fake news, come quella della correlazione tra vaccini e autismo. Eppure, tanta gente rimase più influenzata da quanto dissero i due non-scienziati (mi piacciono gli eufemismi) rispetto a ciò che rispose Burioni. Questione di banale psicologia: nella nostra psiche, infatti, esiste ancora il cosiddetto ‘uomo che fugge', cioè l'attitudine, nel dubbio, a scappare o rifiutare qualcosa anziché soffermarsi a stimare il rischio. Il tutto, indipendentemente dalla credibilità di chi ha fomentato quel dubbio”.
Eccome se me la ricordo quella puntata sui vaccini: uno scontro non certo fra Titani. Incredibile che un tale spettacolo sia andato perfino in onda, per lo meno agli occhi di un giornalista tecnico-scientifico. Ma a parte il mio sconcerto professionale per quanto accaduto a Virus, potrebbe spiegare meglio il concetto dell'uomo che fugge?
“Ma si figuri, è un piacere. Vede, nella preistoria la nostra sopravvivenza era legata alla capacità di catturare prede con il minimo rischio possibile e di sfuggire al contempo ai predatori. Ergo, se vedevamo sfrusciare un cespuglio dovevamo scegliere in fretta fra due ipotesi contrapposte: se quella potesse essere una preda oppure una minaccia. Fosse stata una preda, scappando avremmo perso un pasto, ma se fosse stato un predatore, e fossimo rimasti, avremmo perso la vita. E ovviamente è meglio perdere un pasto che perdere la vita. Quindi, di fronte a qualcosa di dubbio, l'istinto di conservazione ci induceva a scappare, non a indagare”.
Chiarissimo. E l'uomo che fugge è ancora ampiamente presente nell'istinto dell'uomo.
“Esatto. Sono serviti davvero a poco i molti secoli di sviluppo economico, sociale, alimentare e sanitario nel mitigare questa predisposizione alla fuga. Ed è lì che noi ci infiliamo prepotentemente, alimentando la voglia di scappare o rifiutare anziché di comprendere e di accettare. Inoltre, rispetto al passato c'è molta più fame di informazione. Tutti vogliono sapere tutto su tutto e su tutti. E cosa c'è nei biscotti… e come producono la pasta… e come coltivano i pomodori… Figuriamoci quando si parla di pesticidi e Ogm. Una pacchia. Sulle etichette certa gente vorrebbe ci fosse riportato anche il numero di volte che l'agricoltore si lava le mani. Detto fra noi, le moderne ipocondrie e paranoie sono le nostre migliori alleate e il bisogno di un nemico da odiare corrobora ulteriormente questo disallineamento cosmico. Quindi diamo alla gente quello che la gente stessa si illude sia ciò che ci ha chiesto: ovvero l'informazione. Conoscerà anche Lei Roger Ailes, no?”.
Certo, l'ex presidente della rete televisiva americana Fox News, travolto poco tempo fa da uno scandalo sessuale. Ma cosa c'entra col Suo discorso?
“Come cosa c'entra? Mi cade sui fondamentali! Ailes, un vero genio, aveva capito come la gente non comprendesse affatto la differenza tra essere informati e percepire di esserlo. Ricorda la sua famosa frase ‘La gente non vuole essere informata, vuole sentirsi informata'? Un capolavoro. Un grande classico che ogni disinformatore di professione deve imparare a memoria alla prima lezione di pseudo-giornalismo”.
Eccome se me lo ricordo. Alla Fox, sosteneva Ailes, sceglievano uno o due semplici temi da trattare e li rilanciavano in continuazione, a martello. Un altissimo livello di polarizzazione mediatica.
“Infatti in tal modo riuscivano a far sì che nella mente delle persone le tesi da loro proposte compulsivamente divenissero la verità. Perché alla fine la gente è molto semplice: sceglie come verità in cui credere la versione dei fatti che conosce meglio, quindi quella che ha ascoltato più volte. A conferma, l'intera guerra all'Iraq del 2003 fu fatta apparire giustificata agli occhi degli americani grazie alle false notizie sulla presenza di armi di distruzione di massa. Non ce n'erano. Non vi sono mai state prove che ce ne fossero. Ma alla fine convinsero gli Usa che quelle armi esistessero e conquistarono in tal modo il consenso alla guerra di un'ampia fetta di popolazione”.
Lì però si trattava di politica. Sicuro che tali tattiche funzionino anche con altri temi, diciamo, più scientifici?
“Mi fa quasi tenerezza. Quella regola funziona per ogni cosa, vecchio mio: dall'infarcire le trasmissioni di ideologie razziste, oppure misogine, al propalare contenuti pseudo-scientifici privi di qualsivoglia fondamento. Funziona anche nel far credere che la salute del cittadino sia messa in pericolo oggi da questo, domani da quello. Pensi alle reiterate ‘inchieste' su glifosate, prodotto sul quale Lei so essere molto sensibile. Sui Monsanto papers si sono spese migliaia di pagine. Sulle opache presenze nel gruppo Iarc di soggetti pagati dagli studi legali americani, manco mezza. O meglio, ci fu pure un articolo pubblicato sul quotidiano francese Le Monde in cui Stéphane Foucart firmò il pezzo titolato “Glyphosate: Monsanto tente une dernière manœuvre pour sauver le Roundup” (Glifosate: Monsanto tenta un'ultima manovra per salvare Roundup), nel cui sommario si affermava come la Casa di St. Louis fosse implicata in una campagna denigratoria contro il tossicologo americano Christopher Portier. In sostanza, invece di aprire un'inchiesta giornalistica su Portier, il giornale francese tenne la barra ferma sull'odio per Monsanto e glifosate e difese a spada tratta l'ambientalista, sebbene fosse risultato al servizio degli studi legali che stavano preparando la class action contro la multinazionale. Fantastici. Se esistesse un Nobel del mio settore li candiderei volentieri”.
Pensi che io invece faccio davvero fatica a considerarli miei colleghi, come giornalista… E qualche esempio qui da noi, in Italia?
“Quanti ne vuole. Sempre in tema di glifosate e di martellamento ossessivo, per esempio, di analisi della pasta ne vogliamo parlare? Ormai quante ne abbiamo fatte? Una dozzina? Tutte uguali: fatte con lo stampino. Fox News, del resto, insegna: ripetere una cosa finché non s'è piantata nel cervello della gente. Basta perciò qualche analisi, residui praticamente a zero, ma tanto la gente capisce un'acca di questi temi, quindi basta raccontare che qualcosa nella pasta comunque c'è e la paura è servita. Facile come rubare un lecca-lecca a un bambino”.
Lì però non è che si rischia di beccarsi qualche querela per diffamazione? Se un marchio di pasta viene penalizzato rispetto a un altro, pur non essendoci alcun motivo, qualcuno si arrabbia di sicuro.
“Ma si figuri, querele. Primo, per un giornalista sedicente di inchiesta le querele sono fiori all'occhiello che poi spenderà presso i suoi fans a riprova che lui, lui sì, è un giornalista scomodo, coraggioso. Sa, la solita retorica di Davide contro Golia, bla bla. La gente sta infatti per lo più col piccolo Davide a prescindere. Mica si sofferma a pensare su chi fosse Golia, sui perché i due stessero combattendo, quindi su chi stesse difendendo la propria terra dall'invasione dell'altro. Né tanto meno si interroga sui modi con cui un forte guerriero venne steso da una furbesca fiondata da lontano. Chi conosce la storia, infatti, troppa simpatia per Davide mica la può avere. Ma si figuri Lei: conoscere la storia. Che facezia! La gente non si ricorda neppure quello che ha mangiato ieri sera, vuole che si ricordi, che so, l'Olocausto? Nemmeno sono servite le foto fatte scattare a raffica nei lager nazisti da Dwight Eisenhower: il generale ordinò quelle foto perché già immaginava che qualcuno, anni dopo, avrebbe sostenuto che quell'orrore non fosse mai avvenuto. S'illudeva cioè di arginare la follia negazionista con delle prove fotografiche. Ma niente: di negazionisti dell'Olocausto ne circolano ancora oggi a frotte, in barba alle prove di Eisenhower. Capisce quanto sia facile il nostro gioco? Se non hai bisogno di prove, o comunque le puoi addomesticare al tuo volere, la vita diventa un gioco meraviglioso con un pubblico del genere”.
Eccome se lo so. Purtroppo. Ci navigo anch'io in certe bacheche sui social dove una masnada di proseliti osannanti esalta l'operato di individui come Lei, considerandovi dei veri e propri eroi. Davvero frustrante. Ma a parte la mia personale frustrazione, ancora mi sfugge il motivo per il quale le querele non portano a condanna, facendo pensare che, in fondo, i giornalisti abbiano pur detto il vero.
“Vede, non importa cosa diciamo noi – che è quello che valutano i giudici – bensì importa ciò che riusciamo a formare nella testa della gente. Noi apriamo solo la porta: il pensiero diffamatorio facciamo in modo che si sviluppi autonomamente nel cervello di chi ci ascolta. Un sottile giochetto di dico e non dico che sappiamo bene che nella gente si trasformerà in indignazione contro ciò che ci siamo prefissati di danneggiare, senza farlo però in prima persona. E poi: per chiedere un risarcimento devi anche quantificare il danno. L'azienda che ci querela che danno accampa che possa essere collegato direttamente al nostro operato? O l'abbiamo detta e fatta proprio sporca, oppure ce la caviamo sempre. Dura portarci in tribunale in tal modo e infatti chi ci prova perde, dandoci pure l'opportunità di attingere a un'ulteriore vena a nostro vantaggio: il vittimismo”.
Lasci stare: sempre sui social è un continuo florilegio di ciarlatani che usano le querele ricevute come medaglie al valore. Ma andiamo un po' nel dettaglio: ci insegni qualche trucchetto spicciolo.
“Sul suo settore? I pesticidi? Niente di più facile. La psicologia, in fondo, è molto semplice se la si sa usare. Pensi: Lei li vede i pesticidi? Li annusa? Li pesa? No: i residui sui cibi, o la presenza nell'ambiente in genere, mica la può quantificare a occhio. Di fatto sono invisibili. Ergo, possiamo far credere che quella presenza sia pericolosa giocando solo sulla percezione. Poi hanno voglia quelli come Lei di scrivere articoli tecnico-scientifici che dimostrano quanto siamo stati manipolatori e fuorvianti: quando una bugia ha già fatto il giro del mondo, la verità si sta ancora allacciando le scarpe. Quindi, si rassegni: vinceremo sempre noi”.
Sì, va bene. Il predicozzo me l'ha fatto, ma ora ci dica: che trucchetti potrebbe usare?
“Cose semplici, intuitive. Per esempio, se voglio fare percepire come pericolosi i trattamenti fitosanitari, mi basterà mandare in onda un atomizzatore che irrora un vigneto mettendo in sottofondo, che so, la colonna sonora del film "Lo squalo" che tutti conoscono e che tutti inquieta. Ci pensi: geniale e immediato. Manco serve il commento. Il telespettatore abbinerà d'incanto le immagini dell'atomizzatore al concetto di pericolo invisibile, esattamente come quando si pensa a uno squalo che ti si avvicina alle gambe senza essere visto. Il pericolo che giunge dall'ignoto, appunto. E niente spaventa di più che immaginare di essere in pericolo indipendentemente dal fatto di esserlo o meno. Ripeto: noi parliamo alla pancia, all'emotività. Lei alla testa e alla ragione. Secondo Lei chi vince?”.
Cosa crede? Sono perfettamente consapevole del rapporto di forze fra quelli come me e quelli come Lei.
“E allora chi glielo fa fare, scusi?”
Certe battaglie vanno combattute anche quando si sa già in partenza di perdere.
“Eccolo lì, è arrivato il Leonida alle Termopili de noartri! Ma mi faccia il piacere… Vogliamo confrontare la Sua dichiarazione dei redditi con la mia? Così capisce subito chi di noi due è quello furbo e quello no. Anzi, io che guadagno più di Lei facendo disinformazione sono pure percepito come un eroe dal pubblico, mentre Lei viene accusato di essere servo delle lobby. Cornuto e mazziato. Ma ancora non le basta? Ancora non si arrende?”
No caro, non mi arrendo. Non è una guerra questa che preveda la resa. Né ora, né mai. Per ogni ciarlatano che diffonderà stupidaggini a fini di lucro, ci sarà sempre qualcun altro che produrrà le prove di quanto siano fatue le argomentazioni del ciarlatano. Poi, ovvio, ci sarà pure chi continuerà a credere al ciarlatano. Mica si possono salvare tutti. E certi soggetti, in fondo, neanche meritano di essere salvati dalla disinformazione. Poi sarà la storia di lungo periodo a dare i giusti pesi a quelli come me e a quelli come Lei.
Quindi, caro il mio Disinformatore, torni pure in trincea, perché la guerra è giusto appena cominciata.