Lo scorso 17 settembre 2025 si è tenuto a Palermo il congresso internazionale "Postharvest Management of Mediterranean Crops" organizzato dalla Società Ortofrutticola Italiana (Soi).
Il giornalista di AgroNotizie® Duccio Caccioni ha aperto l'evento con una lettura che si riporta di seguito.
"Per prima cosa vorrei dirvi, orgogliosamente, che sono in origine un patologo e un tecnologo post raccolta passato oramai da tantissimi anni al mercato, o meglio al marketing, oltre che al giornalismo. Vorrei quindi ringraziare il mio vecchio amico, il professore Paolo Inglese dell'Università degli Studi di Palermo, per questo invito, che mi è doppiamente gradito.
Oggi vorrei parlarvi di un fenomeno già molto evidente in buona parte dei Paesi sviluppati e anche in alcuni in via di sviluppo è la forte disparità fra le classi sociali nel consumo di frutta e ortaggi freschi e, per estensione, di prodotti salubri, ovvero utili a preservare una buona salute. A tale disparità si affianca in alcuni Paesi, fra cui l'Italia, anche una netta diminuzione del consumo di prodotti ortofrutticoli freschi.
Si tratta di un fenomeno dalle conseguenze già drammatiche in alcuni Paesi, un fenomeno negativo soprattutto per la salute pubblica. Un fenomeno complesso dovuto a un gran numero di fattori di carattere economico, culturale, sociale e anche urbanistico - uno degli aspetti più inquietanti è infatti il cosiddetto food desert (il fenomeno di cui parlerò più ampiamente in questo articolo), ovvero l'impossibilità per alcune fasce della popolazione ad acquistare frutta e ortaggi ed altri alimenti salubri vista l'assenza di punti vendita. Un fenomeno già noto da almeno vent'anni negli Usa, dove interessa oltre 30 milioni di persone, e che si sta espandendo anche in altre nazioni.
Partiamo con ordine: il consumo raccomandato dalla Oms, l'Organizzazione Mondiale della Sanità, per quanto riguarda frutta e ortaggi è di 400 grammi al giorno. Si nota che il consumo comprende non solo alimenti freschi (dal punto di vista nutrizionale e sanitario sarebbe la migliore cosa) ma anche inscatolati e surgelati. Attualmente il consumo medio in Ue è di 364 grammi a persona (fonte: Freshfel, European Fresh Produce Association) quindi al di sotto della soglia minima definita dall'Oms e su scala globale la situazione è anche peggiore (fonte: Freshfel/EuFic, The European Food Information Council). Solo in alcuni Paesi europei si è sopra la soglia (fonte: Freshfel) e in molti di questi negli ultimi anni si sono notate delle diminuzioni piuttosto nette.
È questo il caso dell'Italia, in cui il fenomeno è macroscopico. Se infatti prendiamo in considerazione l'acquisto per famiglia di frutta e verdura fresche, si è scesi da 382,4 a 200 chili (fonte: Cso, Centro Servizi Ortofrutticoli). Questo dato è frutto di un radicale cambiamento delle abitudini d'acquisto e di consumo. Per quanto concerne l'acquisto in Italia dall'inizio del secolo la percentuale di mercato della Grande Distribuzione Organizzata negli ultimi 20 anni è praticamente raddoppiata: oggi per l'ortofrutta si è attorno al 70%.
Per quanto riguarda il consumo si pensi che 50 anni fa la famiglia italiana impiegava circa 3 ore al giorno fra la tavola, la spesa e la cucina, mentre dal 2015 si è scesi sotto un'ora al giorno per effettuare tutte queste operazioni.
Dal punto di vista culturale, anche per effetto delle continue operazioni di marketing, c'è stato un netto passaggio verso cibi industriali, processati, addizionati, pre cucinati, ovvero ad alto contenuto di servizio. Questi prodotti possono ovviamente essere anche salubri - pensiamo al settore del fresh cut - oppure avere un alto contenuto calorico e un basso valore nutrizionale, il cosiddetto junk food, fatto piuttosto comune per quanto concerne i cibi altamente processati e industriali.
Se volessimo usare il cosiddetto rasoio di Occam, una formula filosofica talora paradossale in cui si prospetta che la soluzione a un problema è quella più semplice, si potrebbe dire che il calo del consumo è dovuto all'adozione di un modello di sviluppo basato sulla vendita nelle grandi e grandissime superfici, come grandi supermercati e ipermercati; paradossalmente potremmo costruire un grafico in cui la crescita dei metri quadri della Grande Distribuzione Organizzata in un'area è strettamente correlata alla diminuzione del consumo di frutta e ortaggi freschi.
Certo, non per tutta la popolazione diminuisce il consumo di prodotti freschi. Chi ha un elevato reddito, una cultura (anche alimentare) adeguata, chi abita in aree residenziali ben servite da punti di vendita di vicinato, chi ha tempo e modo di cucinare, talora addirittura aumenta il consumo di frutta e ortaggi freschi. Il problema sono le classi più disagiate sia dal punto di vista del reddito che culturale: la povertà è infatti strettamente correlata all'obesità (Drewnowski e Specter Am. J. Clin. Nutr., 2004). Di fatto oramai in tutto il mondo le persone con i redditi più limitati acquistano non cibi freschi e salubri ma cibi ad alto contenuto calorico, molto insalubri - in pratica si acquista il maggior numero di calorie possibile con la minor spesa per unità calorica (Darmon e Drewnowski, Nutr. Rev., 2015) .
Le conseguenze sono drammatiche e vanno dall'aumento dell'obesità, anche e soprattutto in età infantile, all'aumento delle malattie cardiovascolari e all'aumento del diabete di tipo 2 (ovvero acquisito, non ereditario). Attenzione: tutti questi fenomeni sono già ben documentati in moltissimi Paesi. In Italia le fasce con reddito minore, comprendenti spesso gli immigrati, sono soggette a percentuali anche doppie di obesità e diabete di tipo 2 (Marchesini Reggiani, com. pers.).
Questo è un fenomeno che può diventare insostenibile dal punto di vista finanziario per i Paesi dotati di un sistema di sanità pubblica, come l'Italia. La disparità alimentare nel caso interessi un gran numero di persone può ovviamente condizionare l'offerta, quindi il mercato, ed anche la produzione agricola.
Non vorrei tediarvi ulteriormente con considerazioni di carattere sociologico, anche perché il mio fine è di fare qui alcune considerazioni di marketing, quindi attinenti al mercato e alla qualità dei prodotti.
Voi sapete che il mercato del cibo può essere diviso in tre categorie:
- commodities: prodotti in larghissima scala proposti a prezzi bassi;
- utilities: prodotti di qualità media anche supportati da politiche di marketing dei produttori;
- high value products: prodotti di alta qualità che si differenziano dalla massa anche per il prezzo (premium price).
Dall'inizio del nuovo secolo in tutti i Paesi occidentali stiamo assistendo in particolare allo sviluppo di solo due di queste categorie, ossia quelle delle commodities e dell'alto valore. In regressione la categoria utilities. Questo andamento corrisponde a un fenomeno ineluttabile in tutto l'Occidente: il restringimento del ceto medio, ovvero il suo assorbimento o nelle fasce di reddito più basse o in quelle più alte.
Oggi assistiamo ad un'ulteriore evoluzione di mercato: una tendenziale fusione delle categorie commodities e utilities in un'unica fascia che si differenzia dalla categoria dei cibi high value.
In questa grande categoria, che chiameremo per comodità Cout (commodities + utilities), i prodotti devono avere delle caratteristiche peculiari:
- un aspetto molto gradevole (piena colorazione, assenza di difetti, ecc.);
- un'elevata standardizzazione di forma, colore, sapore, ecc.;
- un'elevata shelf life, ovvero devono mantenere le proprie caratteristiche il maggior tempo possibile.
Per la categoria di elevata qualità, invece, viene sempre richiesto oggi un elevato profilo organolettico, dovuto a caratteristiche anche varietali oltre che di maturazione, e un'elevata qualità igienico sanitaria e nutrizionale - la shelf life riveste una minore importanza rispetto alla categoria precedente.
Nella categoria degli high value products possiamo quindi annoverare i prodotti biologici o biodinamici ma anche quei prodotti che, come dice Michael Pollan, sono 'oltre il biologico'. Questi prodotti 'oltre il biologico' possono essere locali o super locali, magari venduti direttamente dagli agricoltori. In questa categoria di mercato si cercano spesso prodotti privi di packaging o con packaging sostenibile. Della categoria high value fanno parte anche i cosiddetti superfood, prodotti con caratteristiche qualitative e/o nutrizionali eccezionali (vere o propagandate per tali) o anche prodotti per diete particolari (vegetariana, vegana, ecc.). Si tratta spesso anche di quei prodotti che io chiamo ossimorici, cioè un prodotto che simula la carne o un carboidrato ad alta intensità ma senza esserlo.
Qualcuno ora si chiederà a quale categoria appartengano i prodotti fresh cut, che già da tre decenni fanno parte della nostra dieta. Buona parte di questi prodotti fanno parte già da tempo della categoria Cout, a meno che non rappresentino una forte innovazione o abbiano un'elevatissima qualità.
Mi vorrei avviare alle conclusioni.
Quale mercato ci dobbiamo aspettare nei prossimi due decenni?
A mio parere avremo un ulteriore rafforzamento della categoria Cout che tenderà ad assorbire anche nuovi metodi di commercio come la vendita home delivery, tipo Amazon Fresh per esempio, che in alcuni Paesi si sta sviluppando anche per frutta e ortaggi. Da notare che lo sviluppo di tale settore è legato a categorie di consumatori con poco tempo, o elevata età media, e buona disponibilità economica. Il valore aggiunto in questi casi sarà più sul servizio che sulla qualità intrinseca dei prodotti.
Sono poi dell'opinione che continueranno a diffondersi anche i prodotti con alta qualità. In questo caso non saranno solo i consumatori con maggiore disponibilità economica a richiederli, ma tutti quelli con particolari sensibilità alimentari e salutistiche che decidono di impiegare una maggior parte del proprio reddito, e anche del proprio tempo, in una migliore alimentazione. In altri termini, negli anni a venire dovremo sempre più considerare elemento discriminante nella nostra società dei consumi: il tempo. Tempo per fare la spesa, per cucinare, per nutrirsi.
Vorrei qui chiudere tornando invece al dilemma iniziale.
Come fare quindi per combattere le disparità alimentari?
Questo è un problema politico, urbanistico e commerciale.
In molte città del mondo si stanno sviluppando modelli alternativi. A New York la società no profit GrowNyc Greenmarkets gestisce decine di mercati dei produttori partendo da Union Square e arrivando anche nei sobborghi più poveri. A Barcellona da anni si spinge per lo sviluppo dei mercati rionali, che sono oggi una realtà forte nel panorama commerciale e sociale cittadino. A Parigi anni fa è stata lanciata la città dei 15 minuti, un modello urbanistico che è oggi apprezzato in tutto il mondo. In questo modello si prevede che tutti i servizi, compresi quelli commerciali alimentari, debbano essere a una distanza di 15 minuti a piedi o in bicicletta dalle abitazioni dei cittadini. Se questi modelli si potranno più largamente affermare si potranno variare le tendenze di consumo già oggi evidenti e che vi ho qui illustrato".






























