Duole dover tornare su temi imbarazzanti. Duole perché significa che nel frattempo si è imparato dal poco al nulla. Si sta parlando di pratiche di smaltimento in campo di fanghi che di fatto meglio sarebbe che da quei campi stessero lontani. Ciò perché non risponderebbero ai requisiti di Legge necessari ai fini dell'incorporazione nel suolo.

Già quattro anni sono trascorsi da un caso di fanghi illegali smaltiti presso aziende agricole compiacenti, allettate da facili guadagni, sorvolando sulle possibili conseguenze per la salute, per l'ambiente e - perché no - anche per la fedina penale. In quel caso vennero rinvenuti fanghi che contenevano idrocarburi fino a trenta volte i limiti permessi dalla normativa.
 
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Chiamateli rifiuti

Che i fanghi possano rappresentare un'opportunità interessante per l'agricoltura è fuori discussione. Vi sono indubbi vantaggi nel riportare nei campi ciò che dai campi è stato raccolto come cibo, mandato in città, trasformato in poltiglie mollicce e maleolenti, salvo essere depurate e rese quindi nuovamente utilizzabili a fini di concimazione. In pratica, il trionfo dell'economia circolare. Uno dei motivi per cui la sostanza organica si sta depauperando in diverse aree italiane non è infatti quello dell'uso della chimica, come furbescamente certe compagini pseudo-ambientaliste continuano a rilanciare, bensì è la carenza di restituzioni organiche. E in tal senso i fanghi di depurazione sono appunto una grande opportunità. A patto di essere legali, ovviamente.
 

Quando la legalità è la grande assente

Oggi, purtroppo, giunge ai disonori della cronaca un'altra notizia di smaltimenti di fanghi non a norma, per lo meno stando a quanto diffuso dalle Autorità inquirenti a seguito di un'indagine svolta nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia, pur interessando anche Piemonte ed Emilia-Romagna.

In tal senso, sarebbero tre gli stabilimenti posti sotto sequestro dai Carabinieri forestali del Gruppo di Brescia e sotto la lente sarebbero finite sette differenti società che secondo le Forze dell'Ordine avrebbero ricavato guadagni illeciti in ragione di 12 milioni di euro. Tanto sarebbero fruttate le 150mila tonnellate di fanghi contaminati da idrocarburi e metalli pesanti, più varie altre sostanze, smaltiti in guisa di fertilizzanti su circa tremila ettari agricoli fra il 2018 e il 2019.

Sempre secondo gli inquirenti, venivano ritirati fanghi da differenti impianti pubblici e privati di depurazione delle acque, sia reflue urbane, sia industriali. Queste avrebbero dovute in teoria essere trattate seguendo appositi procedimenti atti a garantirne l'igienizzazione e quindi la loro "metamorfosi" in ammendanti.

Al contrario, pare che non solo tali processi non venissero applicati, ma che per giunta di sostanze ne venissero aggiunte di altre ancora, tra le quali perfino l'acido solforico contenuto nelle batterie esauste. Difficile perciò classificare tali prodotti come "gessi di defecazione" e poi smaltirli su terreni agricoli.

Difficile ma non impossibile. Secondo gli investigatori, infatti, agli agricoltori venivano offerti gratuitamente tali volumi da smaltire, aggiungendo pure, sempre a titolo gratuito, la necessaria aratura con cui rimescolarli in campo, abbattendone magari anche le insostenibili puzze. E infatti sono state proprio queste a generare la reazione di alcuni cittadini che hanno segnalato la cosa alle Autorità, facendo scattare le indagini.

Ora, per quanto sia vero che nel terreno vi è una flora microbica che divora pressoché qualsiasi cosa, non si può pensare che divori tutto. Né che nel frattempo qualcosa non diffonda nell'ambiente, tramite aria e acqua, finendo col danneggiare ecosistemi e, nei casi peggiori, col mettere a repentaglio la salute delle persone. Peggio: non si può trascurare l'ipotesi che tali sostanze finiscano assorbite dalle proprie colture finendo nei piatti di altri cittadini ancora.
Tradotto: non si deve fare. Punto.

Primo, perché pericoloso, secondo perché illegale, terzo perché se si è agricoltori seri non si cede alle lusinghe di qualche facile risparmio. Perché se un'offerta è troppo allettante, sicuramente sotto ci deve essere qualcosa di fumoso o, appunto, di illegale. Se si lavora in campagna da anni non si può non sapere tutto ciò. Quindi risulta anche difficile spacciarsi poi per vittime del medesimo traffico illecito. La Legge, per esempio, prevede il reato di "incauto acquisto" (Art. 712 del Codice penale), il quale recita "Chiunque, senza averne prima accertata la legittima provenienza, acquista o riceve a qualsiasi titolo cose, che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per la entità del prezzo, si abbia motivo di sospettare che provengano da reato, è punito con l'arresto fino a sei mesi o con l'ammenda non inferiore a euro 10".

Certo, fa sorridere l'ammenda di dieci euro, ma meno dovrebbe fare sorridere trovarsi nella fedina penale una condanna a sei mesi, seppur passata a casa anziché in galera.

Sarebbe quindi giunta l'ora che certi imprenditori agricoli prendessero esempio dai colleghi più virtuosi, quelli cioè che non considerano la propria terra un'area di cui possono disporre a proprio piacimento senza mai porsi dubbi sulla liceità dei propri stessi comportamenti. Perché poi, come al solito, per colpa di qualcuno non si fa più credito a nessuno.