È questa la ricetta del neopresidente del Movimento Turismo del Vino, Carlo Pietrasanta, lombardo, che succede a Daniela Mastroberardino. L’obiettivo è appunto rilanciare un fenomeno che in Italia vale circa 5 miliardi di euro ma che, è convinto Pietrasanta, “potrebbe crescere ancora molto”.
Presidente Pietrasanta, di cosa ha bisogno il turismo del vino?
“Ha bisogno che le situazioni regionali e nazionali chiariscano quegli aspetti fiscali per permettere alle cantine di fare le visite e le degustazioni, facendosi pagare dai tour operator stranieri”.
Qual è il problema?
“Se l’azienda vitivinicola non è un agriturismo, non ha un ristorante o un museo, è difficile. Qualche passo avanti è stato compiuto con il Decreto del Fare di Letta, che ha liberalizzato alcuni aspetti, ma mancano le direttive agli organi periferici. Non si vuole diventare tutti agriturismi o falsi bar, questo è logico. Le aziende che potevano aprire a formule strutturate di ospitalità rurale lo hanno già fatto, ora serve operare affinché anche le piccole aziende possano fare accoglienza. Non si può obbligare un imprenditore a dotarsi di cucina professionale se vuole offrire una fetta di salame ai propri ospiti durante una degustazione. Noi lombardi, insieme ai colleghi del Veneto, ci siamo mossi per fare da apripista”.
Come valorizzare la grande biodiversità del vino italiano?
“Bisogna lavorare sulla crescita professionale, sulla formazione degli operatori e per fare in modo che le cantine diventino le cellule aggregative territoriali. Il vino deve essere il traino della crescita di un territorio, grazie appunto all’aggregazione di piccole realtà, dai negozi di prodotti tipici o di artigianato locale ai ristoranti, dai bed&breakfast ai negozi di alta gastronomia di qualità”.
Ha un’idea della dimensione di queste cellule aggregative territoriali?
“È variabile e dipende dal territorio, ma potrebbe indicativamente aggirarsi sulle cinque o sei o sette realtà, unite grazie ad un’attività informativa e promozionale sul web. Questo è il futuro ed è l’obiettivo che abbiamo come Movimento del Turismo del Vino in tutta Italia, in modo da valorizzare la grande biodiversità italiana dei vini e dei cibi”.
Oggi quanto vale il turismo del vino e quanti sono gli enoturisti?
“Esattamente non lo sappiamo, ci sono dei dati che parlano di un giro d’affari di 5 miliardi di euro. Serve un’analisi seria, in modo che si possa codificare il fenomeno con l’aiuto delle istituzioni. Bisogna evolversi, ma senza che le aziende agricole perdano la complementarietà o la caratteristica di azienda agricola. Sono certo che se si arrivasse a una normativa chiara, vi saranno zone in Italia dove il fatturato complessivo dell’enoturismo sarà anche superiore a quello derivato dalla vendita del vino. Dalle Alpi alla Sicilia sono ancora molte le potenzialità da sfruttare”.
Il modello di riferimento è sempre quello francese?
“Per certi versi sì, e lo sarà ancora. I francesi fanno un grande marketing territoriale, ma i modelli ai quali ispirarsi devono essere anche quelli californiano e sudafricano, adattati alla realtà italiana. Non possiamo pensare di avere nelle nostre aziende vitivinicole dei trenini per il tour, salvo forse qualche raro caso. Non dobbiamo mai dimenticare che siamo in Italia”.