Quello che è certo è che Pechino e Washington hanno trovato una tregua commerciale, probabilmente funzionale alla realtà e alle esigenze di entrambi i paesi.
In base alla "fase uno" del documento d'intesa di 86 pagine siglato dal presidente americano Donald Trump e dal vicepresidente cinese Liu He (il presidente Xi Jinping non vuole passare in patria come uno che fa concessioni, è l'analisi dei politologi), la Cina dovrà aumentare "il livello delle importazioni di prodotti e servizi dagli Usa per almeno 200 miliardi di dollari in due anni. Inoltre, la traiettoria di crescita dovrà proseguire per molti anni dopo il 2021". Nel documento si sottolinea che sono destinate ad "aumentare in misura rilevante le esportazioni di prodotti agroalimentari statunitensi, consentendo così la crescita del reddito degli agricoltori e dei posti di lavoro". In particolare, saranno abbattute una serie di "barriere non tariffarie che hanno ostacolato le vendite sul mercato cinese di carni bovine, pollame, riso, ortofrutticoli e prodotti lattiero-caseari". Nessuna cifra, però, è stata indicata come traguardo da raggiungere.
Naturalmente, a governare gli scambi saranno i prezzi di mercato. Lo ha scritto il Quotidiano del Popolo, avvertendo che per quanto riguarda i 32 miliardi in più di prodotti agricoli i prezzi debbono essere "competitivi" e le forniture "debbono seguire gli standard di qualità e sicurezza cinesi".
In una nota la American farm bureau federation (Afbf), l'organizzazione più rappresentativa degli agricoltori Usa, ha ricordato che il record delle esportazioni di settore verso la Cina è stato raggiunto, con circa 26 miliardi di dollari, nel 2012, anno che fu caratterizzato da una forte accelerazione dei prezzi sui mercati internazionali.
Nel documento diffuso dall'Usda, il dipartimento di Agricoltura degli Stati Uniti, sono specificati gli obiettivi da raggiungere per alcune produzioni. Ad esempio, per l'export Usa di carni suine è previsto un incremento da 700 milioni (dato riferito al 2017) a 1,7 miliardi di dollari al massimo nell'arco di tre anni.
La American farm bureau federation ritiene che gli obiettivi stabiliti nell'accordo in termini di aumento delle esportazioni siano "raggiungibili, ma occorre una competitività tale da riuscire a togliere quote di mercato ad altri esportatori sul mercato cinese".
Nel rapporto è stato ricordato che nel 2018 oltre l'80% delle importazioni agroalimentari della Cina, circa 125 miliardi di dollari, è arrivato da un ristretto numero di fornitori, tra i quali spiccano Brasile, Unione europea, Australia e Nuova Zelanda.
Con tali premesse, il cerchio sembra stringersi attorno appunto a Sudamerica, Oceania e Unione europea, con il commissario europeo al Commercio, Phil Hogan, che ha annunciato che il documento di accordo fra Usa e Cina sarà attentamente vagliato e non esclude, "se sarà necessario", il ricorso al Wto.
Che cosa succederebbe, però, se le carni suine arrivassero in Cina lungo la rotta pacifica e non seguendo l'antica Via della Seta? Se, cioè, per i cinesi diventasse più conveniente acquistare dagli Stati Uniti che non dall'Unione europea?
Guardando i dati elaborati da Teseo by Clal, è la Cina a dettare i ritmi dell'import, con un incremento del 66,6% nel 2019 e del 34,6% nel 2020 (previsionale). Una corsa che dovrebbe portare a 3,5 milioni di tonnellate le importazioni da parte di Pechino.
Fra gennaio novembre 2019 le importazioni di carne suina in Cina sono cresciute del 57,9% rispetto allo stesso periodo del 2018.
La Spagna è il primo fornitore di Pechino con 328mila tonnellate e un trend di crescita del 61,1% rispetto al periodo gennaio-novembre 2018.
Alle sue spalle si posizionano Germania (284mila tonnellate), Brasile (che con 197mila tonnellate si posiziona di poco sopra i volumi esportati dagli Stati Uniti), Canada (172mila tonnellate) e Danimarca (136mila tonnellate, con una crescita del 100% rispetto al periodo gennaio-novembre 2018).
Nonostante le tensioni commerciali solamente da poco messe da parte, sono gli Stati Uniti a registrare la migliore performance nell'export verso la Cina: +134%, tale da portare a 197mila tonnellate i quantitativi di carne suina inviati lungo la rotta Usa-Cina.
Quali conseguenze potrebbero esserci per l'Europa, qualora gli Stati Uniti conquistassero quote di mercato maggiori? La maggiore produzione suinicola europea dove si riverserebbe?
Le preoccupazioni coinvolgono anche il comparto lattiero. In base ai numeri di Clal.it, infatti, gli Stati Uniti hanno prezzi molto vantaggiosi nel segmento delle polveri di latte scremato (Smp): 2.477 euro alla tonnellata contro i 2.610 euro/tonnellata dell'Unione europea e i 2.809 dell'Oceania.
L'Unione europea aumenta le esportazioni di polvere di latte scremato (Smp) in Cina: in ottobre risulta il primo esportatore di Smp verso la Cina superando la Nuova Zelanda, che è stato il principale fornitore nel periodo gennaio-ottobre 2019.
Con il 12% di tutta la Smp importata dalla Cina di provenienza irlandese. Che cosa accadrebbe se gli Stati Uniti guadagnassero spazi? Di che portata potrebbe essere il contraccolpo sui listini europei? Un eventuale contrazione dei prezzi comunitari rimarrebbe poi confinata solamente alle polveri di latte scremato oppure si ripercuoterebbe sull'intero pacchetto lattiero caseario?