Dallo studio – frutto di un’analisi condotta su un campione di 46 imprese vitivinicole (cooperative escluse) che a livello cumulato rappresentano oltre 2 miliardi di euro di fatturato – sono emersi dati utili per tracciare un vero e proprio profilo delle aziende più inclini alle esportazioni.
La prima riflessione riguarda il fatturato: se la propensione media all’export del settore vitivinicolo si avvicina al 50%, essa supera il 60% nel caso di aziende con oltre 50 milioni di fatturato (che in Italia non raggiungono il numero di trenta). L’internazionalizzazione delle imprese vitivinicole è direttamente legata alle dimensioni aziendali. Altro aspetto riguarda la redditività delle aziende esportatrici: il Roe – che tocca il 4,4% tra le imprese che esportano fino al 50% del valore dei loro prodotti – raggiunge il 10,9% nel caso di aziende dedite al commercio all’estero per oltre il 75%.
Se la redditività del capitale cresce proporzionalmente all’aumentare della propensione all’export, lo stesso non può dirsi della marginalità dei prodotti (misurata tramite l’Ebit: margine netto/fatturato). Il motivo di questo diverso impatto della propensione all’export su marginalità e redditività è da ricercare nella struttura delle imprese vitivinicole italiane.
Primo elemento che contraddistingue e accomuna le imprese fortemente orientate all’export è la tendenza a focalizzarsi su fasi ben precise e – in particolare – su quelle più a valle della filiera: trasformazione (a partire dai semilavorati), imbottigliamento, distribuzione e commercializzazione. Le attività inerenti a queste fasi risultano caratterizzate da una marginalità inferiore e redditività del capitale più elevata rispetto all’azione di imprese che coprono l’intera filiera della produzione: “Sintetizzando, si può affermare che in questa tipologia d’imprese, a parità di prodotti offerti, diminuiscono i margini unitari di prodotto ma aumentano più che proporzionalmente i volumi e i valori di vendita con lo stesso capitale investito” – ha sottolineato Bono.
La maggiore contrazione su queste ultime fasi della filiera da parte delle imprese export oriented lascia intendere come queste realtà abbiano preferito rafforzare le relazioni di filiera piuttosto che incrementare l’investimento nei fattori di produzione; intuizione avallata dal fatto che la produzione imbottigliata per queste imprese sia quattro volte superiore a quella che si otterrebbe dai vigneti gestiti. Le imprese orientate all’export svolgono dunque un ruolo di straordinaria importanza nel mantenere saldi i legami di fornitura a livello locale e favorire le piccole realtà territoriali in nome delle denominazioni d’origine, più forti dei brand privati in termini di riconoscibilità del made in Italy.
Tracciato l’identikit delle aziende vitivinicole più propense all’export, è lecito chiedersi se, a fronte del lento e inesorabile calo che stanno subendo i consumi di vino sul mercato nazionale (scesi da 50 a 35 litri pro capite), il vitivinicolo italiano potrà affidarsi quasi unicamente al mercato estero.
Il calo dei consumi del vino ha interessato sia le vendite sul canale off-trade, sia quelle sull’on-trade, la cui incidenza sulle vendite nazionali di vino è scesa dal 40% al 35% negli ultimi 5 anni. In questo scenario di riduzione dei consumi - aggravato dalla crisi economica - il commercio internazionale ha rappresentato, e rappresenta, una nuova opportunità per molti produttori italiani. È ipotizzabile, in questo contesto, pensare che il settore vitivinicolo possa fare a meno del mercato nazionale?
Sebbene la difficile strada delle esportazioni rappresenti – al momento – una soluzione convincente, “Le relazioni di filiera che abbiamo esaminato possono certamente aiutare la sostenibilità del tessuto produttivo ma prima o poi il vitivinicolo italiano dovrà fare i conti con quello che sembra un ineluttabile declino dei consumi interni, tra l’altro sempre più legati alla Gdo e quindi ad un interlocutore commerciale spesso “inarrivabile” da parte dei piccoli produttori” – avverte Pantini.
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Fonte: Nomisma