Tradizione e innovazione, controllo umano e automazione, produttività e sostenibilità. Solo in apparenza questi elementi sono contrapposti, ma in una azienda vitivinicola moderna si sposano perfettamente. Grazie all'impiego di tecnologie smart (o 4.0, che dir si voglia), è infatti possibile preservare la tipicità dei vini italiani e al contempo aumentare la produttività e la sostenibilità ambientale, senza che questo comporti una perdita di controllo da parte dell'agricoltore sui processi o sul prodotto.
Per traghettare le nostre aziende vitivinicole (ma un discorso simile calzerebbe all'intero settore primario) servono figure nuove, giovani tecnici, nativi digitali, formati appositamente per essere inseriti in realtà imprenditoriali tradizionali per portare quell'innovazione di cui c'è tanto bisogno. Figure che, almeno sulla carta, potrebbero essere il frutto di quel percorso formativo che sono gli Istituti Tecnologici Superiori (Its).
Ma quali sono gli elementi che incentivano l'agricoltore ad adottare nuove tecnologie e quali invece gli ostacoli all'adozione? Ne abbiamo parlato con Martina Panero, ricercatrice presso l'Università degli Studi di Torino che ha da poco pubblicato una ricerca (insieme a Paola De Bernardi, Sara Moggi e Paul Pierce) proprio sul tema dell'adozione di strumenti digitali nel settore viticolo italiano (Unveiling digitalisation in Italian viticulture: a field study on drivers and barriers).
Efficienza prima della sostenibilità
Tra i fattori che spingono l'adozione della digitalizzazione in vigneto emerge un dato chiaro: il principale driver è l'efficienza economica, molto più che la sostenibilità ambientale o la compliance normativa. "Gli agricoltori vedono le tecnologie digitali come strumenti per ottimizzare le risorse, ridurre gli sprechi e semplificare la gestione aziendale. La sostenibilità è percepita, sì, ma come un effetto collaterale, non come leva principale del cambiamento", spiega Martina Panero.
Tecnologie come le centraline meteo, i sensori Iot, i Dss, Decision Support System, le macchine a rateo variabile e i software gestionali (come QdC® - Quaderno di Campagna®) sono citate frequentemente nelle interviste condotte durante lo studio, e vengono valutate positivamente proprio perché aiutano a contenere i costi, a snellire i tempi e a migliorare la produttività.
"Ad esempio, i Sistemi di Supporto alle Decisioni sono tra le tecnologie più apprezzate perché forniscono informazioni concrete, come la previsione di malattie o l'indicazione dei momenti migliori per intervenire in campo. Non richiedono uno stravolgimento dell'organizzazione aziendale, ma migliorano le decisioni già prese quotidianamente".
Barriere strutturali, culturali e psicologiche
Nonostante i benefici attesi, la digitalizzazione incontra ancora resistenze diffuse, che si articolano su più livelli. Innanzitutto c'è una questione di costi. Molti viticoltori percepiscono le tecnologie come investimenti elevati e rischiosi, specialmente in assenza di garanzie di ritorno immediato. Anche quando esistono incentivi pubblici, come quelli legati alla Pac, il timore è quello di non riuscire a sfruttare appieno le tecnologie acquistate.
"Uno dei paradossi emersi dallo studio è il fatto che spesso gli agricoltori acquistano strumenti innovativi grazie a contributi pubblici, ma poi non li usano o li usano male, non al pieno delle loro potenzialità. In certi casi, sono stati acquistati solo per accedere ai fondi, senza un reale progetto di integrazione aziendale", racconta Martina Panero.
A ciò si aggiunge un altro ostacolo rilevante: la complessità percepita. Molti viticoltori, specie quelli meno giovani o meno formati, vedono le tecnologie come strumenti difficili da usare, pieni di dati da interpretare e poco intuitivi. Questo si riflette in una mancanza di fiducia non solo nelle tecnologie stesse, ma anche nella propria capacità di utilizzarle in modo efficace.
"In tanti ci hanno detto chiaramente che si sentono poco supportati. I fornitori delle tecnologie non sempre affiancano l'azienda nella fase post vendita e i consorzi o le associazioni di categoria non sempre riescono a offrire momenti formativi adeguati. Così l'agricoltore si ritrova solo, con uno strumento potenzialmente utile ma inutilizzato".
Paure e percezioni distorte
Un altro nodo emerso dall'indagine è la paura della "deumanizzazione" del lavoro agricolo. L'introduzione di strumenti digitali viene a volte vissuta come una minaccia all'identità stessa del mestiere agricolo, fondato sulla sensibilità individuale, l'esperienza sul campo e il legame con la tradizione.
"Alcuni viticoltori ci hanno detto esplicitamente che temono di perdere il controllo sul processo produttivo, come se il passaggio al digitale comportasse una standardizzazione o una spersonalizzazione del vino. In realtà, i dati servono proprio a supportare il controllo, non a toglierlo", chiarisce Martina Panero.
Questo timore è particolarmente forte in un settore come quello vitivinicolo, dove l'identità del prodotto è strettamente connessa al territorio, alla varietà e al metodo di produzione. La tecnologia è percepita come qualcosa di estraneo, che rischia di omologare processi che invece dovrebbero restare distintivi.
Servono tecnici nativi digitali
In questo contesto risulta evidente che non basta incentivare gli investimenti o abbassare i costi delle tecnologie. Serve una nuova cultura dell'innovazione, una nuova generazione di professionisti capaci di accompagnare il cambiamento in modo concreto e quotidiano. È qui che entrano in gioco gli Its, che potrebbero rappresentare il ponte tra innovazione e tradizione.
"Nelle interviste è emersa chiaramente l'importanza di avere in azienda una figura intermedia, un tecnico formato che sappia tradurre la tecnologia in pratica quotidiana. Non serve solo l'agronomo o l'enologo, ma qualcuno che sappia stare in campo e dialogare con le diverse figure specialistiche", spiega Martina Panero.
Questi profili, se ben formati, potrebbero aiutare le aziende a comprendere il valore reale delle tecnologie, evitando che vengano acquistate per moda o per obbligo e poi lasciate inutilizzate. Occorre però che le imprese siano grandi abbastanza da poter inserire queste figure o che abbiano la sensibilità di affidarsi a liberi professionisti per le consulenze.
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