Gli ultimi casi di influenza aviaria in Italia risalgono a fine febbraio di quest'anno. Da allora il virus non è più comparso negli allevamenti avicoli e nemmeno fra i selvatici.
Anche nel resto dell'Unione Europea gli ultimi focolai sono oramai estinti, ma fanno eccezione Spagna e Portogallo che a metà agosto hanno di nuovo dovuto fare i conti con questo virus.
E le prossime migrazioni dei selvatici potrebbero far di nuovo salire l'allarme. Perché è proprio sulle ali degli uccelli migratori che che questo virus si sposta anche a grandi distanze. Per questo è necessario non abbassare la guardia.
Si allarga il contagio
Un invito lanciato anche dalla Fao che ha recentemente riunito in Brasile oltre 500 esperti e ricercatori per affrontare questa che appare come una minaccia alla salute dell'uomo oltre che a quella degli animali.
Si tratta infatti di una malattia che si diffonde rapidamente e, pur interessando solo raramente le persone, è già riuscita a contagiare 83 specie di mammiferi, sia domestici sia selvatici.
Non si è ancora spenta l'eco dei contagi che hanno riguardato negli Usa numerosi allevamenti di bovini da latte, passando da questi ultimi anche all'uomo.
In nessun caso, fortunatamente, si assiste al contagio fra uomo e uomo, ma il timore di un passaggio di specie, uno spillover, come abbiamo imparato a chiamarlo dall'emergenza covid-19, non va sottovalutato.
Un'evenienza, ha ricordato in passato la nota scienziata Ilaria Capua, che farebbe apparire il covid-19 come una banale influenza.
Lavoro di squadra
"Nessun Paese è in grado di affrontare questa minaccia da solo - ha ricordato il vicedirettore generale della Fao Beth Bechdol - perché l'influenza aviaria rappresenta ormai una sfida globale che impone una collaborazione fra tutti per mettere in sicurezza allevamenti, sistemi agroalimentari e non ultima la salute pubblica".
Quattro i punti cardine sui quali impostare i programmi di controllo.
Promuovere sistemi di allerta rapida, programmare strategie di vaccinazione e di biosicurezza, rafforzare la strategia One Health, dove salute degli animali e dell'uomo sono interconnesse.
Infine il quarto punto, forse il più difficile da attuare: rafforzare la prevenzione e il controllo nei Paesi a basso reddito, laddove la contiguità fra persone e animali è più frequente, favorendo il passaggio del virus.
Alla ricerca degli "untori"
Tornando alla situazione italiana, assume particolare interesse un recente studio dell'Istituto Zooprofilattico delle Venezie, che dell'influenza aviaria è Centro di Referenza Nazionale.
I suoi ricercatori hanno preso in esame l'evoluzione di alcuni focolai registrati nel Nord Italia per individuare gli anelli della catena di trasmissione del virus.
Per raggiungere questo obiettivo si è presa in esame la distribuzione geografica degli allevamenti colpiti nell'emergenza fra il 2017 e il 2018 per confrontarla con la presenza negli stessi territori di uccelli selvatici.
Un lavoro particolarmente complesso sia per la numerosità di queste specie selvatiche sia per la loro individuazione con l'ausilio di fototrappole.
Attenti a questi selvatici
Il risultato di queste ricerche ha evidenziato che aironi, garzette, gallinelle d'acqua e fagiani comuni possono essere gli ospiti "ponte" del virus fra specie che vivono nelle zone umide (come germani reali e gabbiani, dove il virus si mantiene) e gli allevamenti avicoli.
Le conclusioni di questa ricerca suggeriscono quindi di includere queste specie "ponte" nei programmi di sorveglianza epidemiologica.
Così facendo si potrebbero identificare precocemente i segnali di una possibile trasmissione del virus agli allevamenti avicoli.
Partendo dal presupposto che misure di biosicurezza negli allevamenti sono sempre indispensabili, un'allerta precoce potrebbe rivelarsi risolutiva per attuare strategie di prevenzione più efficaci.





























