Dazi nostri. O forse no.

Trump non è magari così cattivo come sembra. Nel settore vinicolo si è tirato un sospiro di sollievo con la sospensione per 90 giorni di una quota del 10% sul dazio aggiuntivo minacciato (20%).

Per ora, dunque, i vini italiani importati negli Usa pagheranno il 10% oltre al dazio precedente (oggettivamente basso - 1% per i fermi, 2,5% per i frizzanti).

 

Gli Usa sono il nostro più importante cliente estero. Esportiamo per 2 miliardi di euro, con aumenti considerevoli negli ultimi anni ed un crescente apprezzamento da parte del grande pubblico (soprattutto giovane).

 

Come ha rivelato un recente studio Nomisma, l'Italia esportando molto negli Usa (il 24% del totale) è ovviamente più esposta ad eventuali flessioni di questo mercato rispetto ai competitor: Francia (20%), Australia (14%) e Spagna (11%). Urge quindi una strategia.

 

In primis diversificare l'esportazione verso altri paesi. I tanto criticati dealcolati potrebbero per esempio aprirci tanti mercati (quelli dei paesi musulmani) ad alto gradimento dei prodotti italiani.

Poi vi sono le piazze dove il vino italiano sta crescendo vertiginosamente da alcuni anni: in Europa (Romania, Polonia…), in Asia (Corea del Sud in testa) e in Sud America (Messico, Brasile…).

 

Inoltre, sul mercato americano una buona parte dei vini italiani sono oggi venduti a prezzi popolari e un dazio del 20% potrebbe portarli nella fascia di prezzo intermedia, forse la più soggetta a flessioni di consumo. Bisognerebbe quindi riflettere con attenzione su di una differente segmentazione dell'offerta per quanto riguarda il prezzo.

 

Quindi non disperiamo: la velocità di adattamento è sempre stata una caratteristica italica.