Negli anni successivi all'evento "Il bambù business, una possibile filiera corta in Italia", del quale l'autore fu uno dei relatori, abbiamo assistito al proliferare di associazioni e imprese che promettono investimenti redditizi in piantumazioni di quello che chiamano come "moso" principalmente mirati ai settori alimentare e del design industriale.
Noi abbiamo investigato e vi proponiamo una rassegna di assurdità facilmente smontabili, con il proposito di salvaguardare i nostri lettori e lettrici, ed il pubblico in generale, da eventuali truffe.
      
Innanzitutto, chiariamo che esistono diverse specie di bambù gigante, perlopiù tropicali. La specie conosciuta col nome cinese "moso" (Phyllostachys edulis alias Phyllostachys pubescens) si caratterizza per una buona resistenza al freddo, essendo documentati nella letteratura bambuseti che hanno resistito fino a -12 °C.
Detta specie è fortemente sfruttata in Cina, Taiwan, Thailandia e Giappone, paesi nei quali è utilizza per produrre innumerevoli oggetti d'artigianato: dalle semplici bacchette monouso per mangiare il riso fino a pale di turbine eoliche di 80 m di diametro.

In Italia assistiamo ad una crescente promozione di questa specie, presentata come "oro verde" e fonte di lauti guadagni.
Tale fenomeno è stato già evidenziato da AgroNotizie, nell'articolo di Tommasso Cinquemani, "Coltivazione del bambù, un'opportunità per gli agricoltori?".
Poi segnaliamo anche il portale di una famiglia truffata dai venditori di investimenti in coltivazioni di bambù.
(NdA, 3 agosto 2017: Alla data di pubblicazione del presente articolo , 7/11/2016,  esisteva un sito chiamato "delusi dal bambù" (http://www.delusidalbamboo.org/bamboo/). Alla data 03/08/2017 tale sito sembra essere stato rimosso.) 

Inoltre, all'autore, sono giunte richieste di consulenze per comprendere le ragioni del "nanismo" del bambù acquistato come "gigante".

Vediamo perché ci troviamo di fronte ad una apparente bolla speculativa, con dati alla mano.
 
Affermazioni sul bambù gigante da valutare con cautela 

  • "Ad ogni taglio, o diradamento della foresta per produrne germogli e canne, la foresta stessa emetterà l'anno seguente ulteriori germogli che, se lasciati crescere, in dodici settimane, raggiungeranno l'altezza di circa venti metri ripristinando quanto diradato l'anno precedente".
    Vero, ma le canne necessitano poi di cinque anni di maturazione per poter essere utilizzabili. Attualmente non esiste letteratura scientifica attendibile sulla velocità di crescita della pianta di quella specie nelle condizioni pedoclimatiche italiane.
  • "Il suo recepimento dai sistemi industriali europei, è stimato possa essere decisamente semplice".
    Interpretazione personale di chi afferma tale fatto. Il bambù è un'erba gigante, costituita perlopiù da cellulosa ed emicellulosa, per cui la sua biomassa non può essere scientificamente considerata "legno". Di conseguenza, le norme tecniche attualmente in vigore per l'omologazione dei prodotti di legno, non sono direttamente applicabili al bambù.
    Ad oggi non esiste una normativa che ne regoli i parametri di qualità dei pannelli e altri prodotti di bambù simili e pare nemmeno esista l'intenzione istituzionale d'investire in questo settore.
  • "Offriamo un contratto decennale (in altri blog è un contratto quinquennale, Nda) di acquisto dell'intera produzione alle migliori condizioni di mercato".
    Poiché il bambù richiede almeno cinque anni dalla piantumazione al primo raccolto e considerando che tale business di solito è proposto da una società di capitale, è perfettamente lecito chiedersi quale sia la garanzia dell'investimento, poiché la stessa potrebbe sparire con i soldi entro i cinque anni.
  • "Tra le scelte che si stanno rivelando vincenti possiamo elencare un metodo sperimentale di coltivazione, quello omeodinamico, con trenta anni di risultati straordinari che, associato al metodo biodinamico, consentirà grandi risultati sul piano del risanamento dei suoli e del profitto". L'agricoltura biodinamica, ed il suo derivato, la omeodinamica, sono pseudoscienze che mischiano alcuni elementi di agricoltura biologica (veri) con concezioni esoteriche teorizzate dal filosofo ottocentesco Rudolf Steiner il quale non era, appunto, né un agronomo e né un botanico.
    In Italia, paese tradizionalmente conflittuale nei confronti della scienza, dove molte persone (perfino parlamentari e alti dirigenti) credono nelle scie chimiche, nell'energia dal nulla, nell'omeopatia, nei terremoti causati dall'ira divina e perfino in un finto documentario sulle sirene, non è da stupirsi che anche l'agricoltura biodinamica prenda facilmente piede, come già denunciato da Donatello Sandroni su AgroNotizie nel suo articolo "Olisticamente basiti". Un altro elemento che dimostra la scarsa attendibilità dei sedicenti "esperti agronomi".
  • "Di norma l'intera gestione di un bambuseto a scopi produttivi-intensivi non richiede oltre le 70-80 giornate all'anno per ettaro".
    Dalle informazioni che l'autore ha ricavato in occasione di un congresso a Shenzhen, Cina, la coltivazione intensiva di bambù a scopo industriale (legname) richiede almeno di una persona full time ogni due ettari.
    Inoltre, le canne vanno catalogate, selezionate e tagliate a mano, individualmente, perché crescono e maturano in momenti diversi all'interno della stessa superficie coltivata.
  • "L'investimento è nell'ordine dei 20.250 euro per una quota del 5% (cioè 1 ettaro di una piantagione di 20 ettari, Nda) con una redditività di 8mila euro all'anno a partire dal 5° anno".
    Attualmente non vi sono piantagioni più vecchie di cinque anni, e perciò non vi è certezza sulla redditività promessa. Potrebbe dunque essere anche infondata. Gli stessi blog e siti dei sedicenti "vivaisti certificati" mostrano foto di piantine di pochi centimetri di altezza, che potrebbero essere qualsiasi specie di bambù, non necessariamente P. edulis.
    Assumendo che il bilancio fra costi e ricavi sia costante e pari a 8mila euro durante dieci anni a partire dal 5° anno, un semplice calcolo del Tir (Tasso interno di rendimento) con il foglio elettronico indica un punto di pareggio a sette anni e una redditività del 14% a dieci anni.
    Tale investimento può sembrare molto attraente per chi non possiede terra. Ma, se lo confrontiamo con la coltivazione del mais in un terreno preso in affitto (dati tratti dal sito della provincia di Novara), in questo caso già dal primo anno si avrebbe il 9% di introiti, con un investimento di 2.872 euro. Se proseguita per dieci anni, la redditività complessiva della coltivazione di mais in un terreno in affitto risulta del 33% nel 10° anno. Segnaliamo inoltre che, nel caso del bambù, la proposta del blog dal quale è stata presa la frase, riguarda l'acquisto di una quota societaria, quindi un investimento ad alto rischio, mentre nell'ipotesi di coltura tradizionale il rischio è minimo.
  • "Autunno cadono le foglie ma fioriscono i Certificati bianchi". Una battuta per dire che xy (Nda: non riportiamo il nome del promotore per non fare pubblicità gratuita, ma offriamo approfondimenti in separata sede) offre sulle sue piante madri di bambù gigante uno sconto di mille euro l'ettaro fino al 30/11/2016 più altri 2mila euro per la cessione dei crediti di carbonio…
    Questa proposta lascia leggere fra le righe che gli oltre 1500 ettari già piantumati consentono un extra guadagno in caso di vendita di "Certificati bianchi" alle grandi società Energivore del settore petrolchimico e carbone.
    Il messaggio promozionale in questione lascia intendere dei supporti statali alla coltivazione del bambù sulla base di ipotetiche evoluzioni normative e interpretazioni, infondate alla data odierna, in quanto:
      • I certificati bianchi sono "titoli d'efficienza energetica" (Tee), cioè titoli negoziabili che certificano il conseguimento di risparmi energetici negli usi finali di energia attraverso interventi e progetti di incremento di efficienza energetica (si veda la pagina ufficiale del Gse.
    Ad esempio, beneficiano di Tee gli interventi di cogenerazione ad alto rendimento, che solitamente si basano sulla combustione di gas naturale o di altri combustibili fossili. Il bambù non c'entra assolutamente con questo sistema di incentivazione statale al risparmio energetico e non è chiaro come l'azienda in questione intenda vendere "certificati bianchi" sulla base delle ipotetiche piantagioni di bambù.
      • I crediti di carbonio sono un sistema introdotto dall'Ipcc (International panel for climate change) con lo scopo di favorire il cosiddetto "meccanismo dello sviluppo pulito".
    Si applica però alla piantagione industriale di alberi in paesi in via di sviluppo, quindi in linea di massima una piantagione di bambù (o di una qualsiasi specie forestale) in Europa non dà diritto ai crediti di carbonio, almeno non nell'ambito del sistema Ipcc.
    In Italia è in vigore l'European union emissions trading scheme - Eu Ets, un sistema di aste per lo scambio di diritti di emissione fra le aziende obbligate per legge a ridurre le loro emissioni di CO2. L'esistenza di tale sistema non implica che aziende come l'Enel o la Italcementi debbano forzosamente acquistare "carbonio fissato in biomassa"; si scambiano semplicemente le quote di emissioni che le sono state assegnate, in funzione di quelle effettivamente rilasciate ogni anno.
      • In Italia è stato portato a termine un progetto, finanziato con fondi Life, chiamato Carbomark. Lo stesso è rivolto a proprietari di boschi (la possibilità di estendere il concetto ai bambuseti è solo teorica!) e enti locali o aziende energivore friulane o venete, che acquistano crediti su base volontaria.
    Orbene, si tratta di aziende o enti non soggetti all'obbligo di riduzione delle emissioni di CO2, per cui il fatto di possedere un appezzamento forestale e compromettersi a non tagliarlo per un dato numero di anni, non implica necessariamente che qualcuno ne acquisterà "diritti di carbonio".

    Da un punto di vista puramente scientifico, poiché il bambù (e, in generale, le specie forestali a rotazione breve) fissano solo una frazione del carbonio catturato come biomassa, tale meccanismo è abbastanza questionabile se non si conosce con certezza la destinazione della biomassa prodotta.
  • "Se ad esempio oggi qualcuno mi regalasse tonnellate di legno di Phyllostachys edulis (moso) cresciuto in Italia, lo dovrei comunque rifiutare perché solo trasformarlo in Italia avrebbe un costo già superiore a quanto stessa qualità di produzione finale costerebbe al sistema asiatico".
    Tale affermazione, proveniente da un gruppo che promuove un'altra specie di bambù, il Phyllostachys bambusoides, non è del tutto priva di senso. Ad oggi non esiste in Italia una industria capace di lavorare le canne grezze a costi competitivi con quelli asiatici (50 euro/tonnellata di semilavorato, cioè le strisce a sezione rettangolare adeguatamente piallate, componente di base per la maggior parte dei prodotti di bambù). Ma lo stesso vale sia per il P. edulis che per il P. bambusoides, quindi che vantaggio comporterebbe coltivare quest'ultimo?
  • Nel sito di un'azienda che offre "…un progetto di investimento ad altissima redditività finanziaria e basso rischio per gli investitori" leggiamo le competenze dello staff: troviamo un "esperto in gestione aziendale", un "esperto in comunicazione e pubbliche relazioni", un "componente insostituibile del gruppo, capace di mediare perfettamente tra ambito amministrativo, commerciale e marketing",  e infine un "maestro della comunicazione e del copyright".
    Sorge spontaneo chiedersi come mai non abbiano pensato di incorporare un agronomo o un biologo in grado di gestire un progetto basato su una coltura assolutamente nuova in Italia.


Conclusione
Esistono forti indizi per diffidare dell'effettiva redditività che la coltivazione del bambù potrebbe offrire in Italia.
E' vero che il bambù può avere un valore ecologico, ad esempio per decontaminare discariche abusive o siti industriali dismessi fortemente inquinati, come proclamato da un movimento politico; ma questo è da intendersi come "risparmio di costi" rispetto ad opere di bonifica convenzionali, non di certo come "il segreto per diventare ricco" proclamato nell'ennesimo blog.

Referenze autobiografiche
Fra il 1996 e il 1997 l'autore collaborò nella redazione di quella che forse è stata la prima tesi di laurea sul bambù scritta in Italia nella facoltà di architettura di Venezia.
Continuando poi i suoi studi teorici, nel 2012 vinse il premio The Economist alla migliore idea di business per contrastare il cambio climatico, teorizzando un ciclo industriale basato sulla produzione di bioidrogeno e la coltivazione del bambù gigante per produrre materiali da costruzione e altri beni durevoli.
 

Conferenza di Mario A. Rosato alla Pace University di New York


Nello stesso anno vinse un altro premio dell'Environmental defense fund sulla coltivazione sinergica del bambù gigante con colture tradizionali, (si veda l'articolo dello stesso autore "Colture sinergiche per la produzione alimentare e da biomassa").

Il sottoscritto venne invitato in due occasioni dal popolare programma di Rai 3, Geo&Geo: in un'occasione espose i principi basilari della fermentazione oscura e della digestione anaerobica e nella seconda puntata  le strabilianti proprietà meccaniche del bambù.
 

Geo&Geo, Le proprietà meccaniche del bambù


Nel 2013 l'autore fu co-organizzatore e relatore di un convegno volto ad instaurare un progetto di ricerca industriale multidisciplinare.
Alla data odierna, la ricerca genetica e agronomica nelle condizioni pedoclimatiche italiane non è ancora matura, ovvero non garantisce la redditività degli ipotetici investimenti nella filiera del bambù.

L'unica certezza è che non esistono aiuti pubblici, né di Stato né europei, specifici per tale filiera come invece si sta proponendo a livello politico per la canapa.

Leggi anche: "Il punto della situazione sulla bolla speculativa del bambù"