Il phytomining, letteralmente "estrazione mineraria dalle piante", è un concetto produttivo sul quale la ricerca è in aumento esponenziale negli ultimi dieci anni. In italiano si può tradurre come fitoestrazione. È una variante del concetto di fitodepurazione, cioè l'assorbimento o l'eliminazione degli inquinanti del suolo o delle acque mediante la coltivazione di piante appositamente selezionate.

 

Nella fattispecie, la fitoestrazione ha per scopo il recupero di metalli pesanti - Zn, Cu, Ni, Pb, eccetera - mediante la coltivazione di piante iperaccumulatrici, cioè specie vegetali che non bloccano l'assorbimento di tali elementi a livello di radice, bensì li assorbono e li concentrano nelle foglie. In tale modo è possibile raccogliere la biomassa carica di metalli, essiccarla, bruciarla - con eventuale recupero energetico - e infine recuperare i metalli dalle ceneri. È noto che, oltre certe soglie di tossicità, la presenza di metalli pesanti nel suolo ne riduce la fertilità.

 

Il ragionamento che giustifica la ricerca in questo campo è dunque che la fitoestrazione comporterebbe tre benefici: la bonifica del terreno, la produzione di energia dalle biomasse non alimentari e il recupero di metalli con valore di mercato. Allora, come mai il phytomining non viene applicato su larga scala? Sarà qualche oscuro complotto delle lobby industriali per bloccare lo sviluppo dell'agricoltura naturale? O semplicemente l'ennesimo esempio di bias cognitivo dell'ideologia ecologista?

 

In questo articolo tenteremo di far luce sull'effettivo potenziale della fitoestrazione nel caso concreto dell'assorbimento di rame dal suolo.

 

Come noto, l'Unione Europea vorrebbe mettere dei limiti all'utilizzo del rame nei trattamenti fitosanitari, argomentando un rischio per la salute dei consumatori, che nei fatti sembra però assai trascurabile.

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Dal position paper dell'Accademia dei Georgofili (1) emergono i seguenti dati obiettivi:

  • La viticoltura rappresenta solamente il 3% della superficie agricola europea ma utilizza il 65% di tutti i fungicidi impiegati in agricoltura, ovvero 68mila tonnellate/anno. Uno scenario preoccupante che ha spinto la Commissione Europea a emanare regole sempre più restrittive con l'obiettivo di dimezzare l'uso dei presidi sanitari entro il 2025.
  • La recente normativa europea ha abbassato ulteriormente la quantità massima di rame applicabile per ettaro da 6 a 4 chilogrammi all'anno, calcolata sulla base di un valore massimo di 28 chilogrammi/ettaro di rame nell'arco di sette anni, estendendo il limite dalla produzione biologica anche a quella convenzionale. Attualmente le strategie di riduzione dell'uso del rame si basano su due frangenti: per quanto riguarda la difesa integrata, si cerca di ottimizzare il momento d'intervento in funzione del rischio infettivo e del meccanismo d'azione delle molecole combinato con pratiche agronomiche finalizzate a rendere la pianta meno sensibile alle infezioni; per quanto riguarda invece la produzione biologica si mira all'ottimizzazione dei dosaggi e dei tempi di applicazione del rame. Le alternative al rame attualmente in fase di sviluppo possono essere divise in tre grandi gruppi: induttori di resistenza, molecole naturali di derivazione animale o vegetale e microrganismi. Restano ancora diversi dubbi sulla loro efficacia e sostenibilità economica, quindi il rame continuerà ad essere insostituibile.
  • Il rame è un elemento essenziale per le piante e svolge ruoli chiave in diversi processi biochimici e fisiologici collegati alla crescita e allo sviluppo delle stesse. Anche se il suo contenuto totale nei terreni agrari viene generalmente ritenuto adeguato, la frazione disponibile per la pianta può invece variare considerevolmente in funzione dei valori di pH del suolo stesso e del suo contenuto in sostanza organica. I meccanismi radicali di acquisizione del rame sfruttano la frazione ionica libera del nutriente (Cu+/Cu++), anche se l'utilizzo diretto di fonti complessate a leganti organici di varia natura non è esclusa. In questi ultimi decenni, tuttavia, l'uso ripetuto e prolungato di fungicidi a base di rame per i piani di difesa delle colture agrarie di pregio, in particolare le piante di vite, ha determinato un significativo accumulo del metallo nei suoli vitati (in particolare negli strati superiori), raggiungendo in diversi casi livelli di concentrazioni tossici per le piante e, in alcune circostanze, addirittura superiori ai limiti imposti nell'Ue per i terreni agricoli. In queste condizioni, le piante mostrano evidenti sintomi di tossicità sia a livello radicale che fogliare associati a chiari squilibri nutrizionali, suggerendo una possibile interferenza del rame con i meccanismi di acquisizione di alcuni degli altri elementi nutritivi essenziali e determinanti per standard qualitativi elevati del raccolto.
  • La concentrazione di rame totale (Total Cu) nel suolo pari a 100-150 milligrammi/chilogrammo è convenzionalmente riconosciuta come la soglia di tossicità di rame per piante e microrganismi del suolo. Queste soglie derivano da prove di fitotossicità in laboratorio con contaminazione artificiale e verifica l'effetto nel breve periodo. Tali condizioni di laboratorio hanno evidenziato che dosi di rame fitotossiche sulle piante (per esempio da 250 a 500 milligrammi/chilogrammo Total Cu su mais) riducono la diversità batterica inducendo la predominanza di alcune specie. Tuttavia, poco si sa dell'effetto a lungo termine del rame sui microrganismi del suolo. Studi recenti hanno evidenziato che l'effetto di disturbo sull'attività microbica a partire da concentrazioni di rame superiori ai limiti si evidenzia facilmente a distanza di cinquanta, sessanta anni dalle ultime applicazioni di rame. In questo caso, diversamente dall'effetto al breve periodo dei test di laboratorio, il rame nel suolo aumenta la variabilità delle comunità batteriche e la loro diversità. Per quanto riguarda la capacità metabolica, alte concentrazioni di rame presenti a lungo termine nei suoli ne riducono l'efficienza metabolica. Tuttavia, si riportano evidenze in cui la gestione conservativa, ed il graduale incremento della sostanza organica, attenuano gli effetti tossici del rame su batteri e funghi del suolo, permettendo di raggiungere buoni livelli di fertilità biologica anche in presenza di concentrazioni di rame di gran lunga superiori a quella dei limiti convenzionali di tossicità.
  • Mentre negli Usa è permesso l'uso in pieno campo di taluni antibiotici quali fitofarmaci, in Europa i battericidi ammessi sono rappresentati esclusivamente da composti a base di rame. Se importanti come ruolo nella difesa integrata, i battericidi rameici sono talvolta addirittura indispensabili in agricoltura biologica. Ma a partire dagli Anni Ottanta dello scorso secolo è stato via via crescente il numero di segnalazioni relative allo sviluppo di resistenza al rame in batteri fitopatogeni afferenti a vari e diversi generi, fenomeno che ha destato notevoli preoccupazioni per la sostenibilità di questi interventi. Più in generale, la crescente consapevolezza dei problemi di natura ecotossicologica, derivanti dall'uso continuato, ma più spesso inutilmente eccessivo, del rame a protezione delle colture dalle malattie, in tempi recenti ha portato a norme legislative più restrittive per limitare l'uso dei composti antimicrobici rameici e quindi alla ricerca di possibili alternative.

 

I dati sperimentali degli studi che abbiamo riassunto sopra (2), benché limitati, indicano che il problema del rame nel suolo è di gran lunga più complesso della semplicistica equazione euroburocratica "viticoltura = rame = inquinamento". Piuttosto, si tratta della solita mezza verità cui ci hanno abituato i mass media e le Ong ambientaliste: se da un lato è vero che la concentrazione di rame nei suoli vocati alla viticoltura è più alta rispetto a quella "naturale", è altrettanto vero che la concentrazione di per sé non necessariamente comporta fitotossicità né rischi per il consumatore, perché l'assorbimento dipende da diversi fattori pedologici; i valori di concentrazione effettivamente rilevati sono spesso al di sotto della soglia di tossicità; ed inoltre il problema è circoscritto ad una piccola frazione della superficie agricola comunitaria.

 

La decisione dei funzionari europei di dimezzare i dosaggi di rame consentiti in agricoltura sembra dunque una scelta ideologica, o quanto meno basata sul "cherry picking" degli studi scientifici che convalidano le tesi degli ambientalisti, ignorando le evidenze contrarie.

 

Ammesso e non concesso che l'accumulo di rame nel suolo vocato a viticoltura possa diventare un problema nel breve termine, analizziamo se il phytomining possa costituire una soluzione efficace. Come in altri casi analizzati in articoli precedenti, applichiamo dunque il principio del dubbio cartesiano ai tre presupposti che, secondo i fautori di questa tecnica, ne giustificano l'implementazione:

  • Bonifica del terreno. Le piante note per la spiccata capacità iperaccumulatrice di Cu provengono tutte dalle Copper Hills del Congo, ma tale capacità pare sia stata un po' sovrastimata, quindi sarebbero semplicemente della piante "molto tolleranti" alla presenza di Cu nel suolo, ma non necessariamente lo assorbono e accumulano. Una pianta si definisce "iperaccumulatrice" di Cu quando è in grado di accumulare nelle sue foglie almeno 300 microgrammi/grammo di biomassa secca. Le cinquantatré specie riconosciute come iperaccumulatrici di Cu appartengono a venti famiglie (principalmente Asteraceae, Commelinaceae, Fabaceae, Lamiaceae, Linderniaceae, Malvaceae, Orobanchaceae e Polygonaceae) e quarantatré generi (3). Il "campione dell'accumulo" è Aeolanthus biformifolius, una pianta erbacea originaria dallo Zaire, capace di accumulare il Cu fino all'1,4% del peso secco totale delle foglie (4). Dato impressionante, ma irrilevante ai fini pratici: non c'è alcun produttore di sementi di questa pianta, e anche se ci fosse non è detto che possa crescere nelle nostre condizioni pedoclimatiche, e infine non è nota la sua produttività di biomassa. Stando con i piedi per terra, bisognerebbe considerare solo le specie coltivabili in ambito Mediterraneo. L'alisso murale, Alyssum murale (alias Odontarrhena muralis) è capace di accumulare fra mille e 2.500 milligrammi Cu/chilogrammo ss (5). Poiché l'inerbimento dei vigneti è una pratica raccomandabile, supponiamo di attuare tale pratica con l'alisso murale (o qualche altra specie di alisso). Supponiamo inoltre, in mancanza di altri dati, che la sua produttività di biomassa sia simile a quella della colza, pianta della stessa famiglia: 5 tonnellate SS/ettaro. Poiché gli interfilari occupano all'incirca il 60% della superficie del vigneto, la produzione di biomassa epigea di alisso sarà pari a 3 tonnellate SS/ettaro. Se le suddette ipotesi fossero vere - tutto da dimostrare! - la quantità di rame asportato sarà compresa fra 3 e 7,5 chilogrammi/ettaro di vigneto. Almeno in teoria, il phytomining servirebbe ad impedire l'accumulo di Cu nel suolo, e nel caso più ottimistico addirittura ne ridurrebbe gradualmente la concentrazione col passare degli anni.

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  • Produzione di energia dalle biomasse non alimentari. Nelle ipotesi precedenti, la quantità di energia termica producibile mediante la combustione della biomassa epigea di alisso è assai irrilevante: 3mila chilogrammi SS x 19 MJ/chilogrammo = 57mila MJ = 15.834 kWh. Letteralmente un fuoco di paglia: appena sufficiente a far funzionare una caldaia a biomasse domestica da 40 kW per sedici giorni. Un'alternativa alla combustione potrebbe essere la carbonizzazione della biomassa, anche senza recupero di calore. In tale caso, il successivo lavaggio del biochar con una soluzione di acido solforico permetterebbe di recuperare una soluzione diluita di solfato di rame, da conservare e riutilizzare negli anni successivi. Il biochar "deramato" andrebbe restituito al terreno, migliorandone la fertilità.
  • Recupero di metalli con valore di mercato. Alla data del 18 settembre 2023, la quotazione internazionale del rame era di 9,35 dollari americani/chilogrammo (Fonte: Il Sole 24 Ore). Quindi, in teoria, il recupero del rame rappresenterebbe un introito extra per il viticoltore assolutamente irrilevante, compreso fra 26 e 37 euro/ettaro.

 

Conclusioni

La nostra analisi critica indica che, anche adottando ipotesi molto ottimistiche, l'unico vantaggio concreto della fitoestrazione di rame dai terreni dei vigneti consisterebbe semplicemente nell'evitarne l'accumulo e, nel migliore dei casi, una - piccola - graduale riduzione della sua concentrazione. Fra i due metodi di estrazione del rame proposti nella letteratura - combustione con recupero dalle ceneri o pirolisi con percolazione di acido solforico - il secondo sarebbe relativamente facile da attuare in loco e consentirebbe di recuperare solfato di rame, da riutilizzare nei cicli colturali successivi, riducendo dunque o almeno mitigando il fenomeno dell'accumulo nel suolo. Il fantomatico recupero energetico dalla biomassa non alimentare raccolta, e gli ipotetici guadagni addizionali per la vendita del metallo, appaiono del tutto irrilevanti anche sotto le ipotesi di analisi più ottimistiche.

 

Rimane comunque un problema pratico da risolvere: la selezione e la produzione in larga scala di sementi di alisso murale - o di altre specie di alisso presenti in Italia - e la determinazione degli input agronomici necessari per la sua coltivazione negli interfilari, voce di costo che non è prevista in nessuna delle ricerche disponibili nella letteratura scientifica.

 

Per maggiori approfondimenti

 

Bibliografia

(1) Riflessioni sull'uso del rame per la protezione delle piante - Giornata di studio, Firenze, 22 novembre 2019. Raccolta dei riassunti.

(2) Quaderni 2019-III - Accademia dei Georgofili Sezione Centro Ovest. Riflessioni sull'uso del rame  per la protezione delle piante, Firenze, 2020.

(3) Reeves, R.D., Baker, A.J.M., Jaffré, T., Erskine, P.D., Echevarria, G. and van der Ent, A. (2018), A global database for plants that hyperaccumulate metal and metalloid trace elements. New Phytol, 218: 407-411.

(4) F. Malaisse, J. Gregoire, R. R. Brooks, R. S. Morrison, and R. D. Reeves; Aeolanthus biformifolius De Wild.: A Hyperaccumulator of Copper from Zaïre; Science, 24 Feb 1978 Vol 199, Issue 4331, pp. 887-888, DOI: 10.1126/science.199.4331.887.

(5) Lange, B., van der Ent, A., Baker, A.J.M., Echevarria, G., Mahy, G., Malaisse, F., Meerts, P., Pourret, O., Verbruggen, N. and Faucon, M.-P. (2017), Copper and cobalt accumulation in plants: a critical assessment of the current state of knowledge. New Phytol, 213: 537-551.