L'Unione Europea è la più grande potenza commerciale mondiale.

Il commercio in beni e servizi dell'Unione europea è infatti pari a 8 trilioni di euro, di molto davanti alla Cina (6,8 trilioni) e agli Usa (6,6 trilioni). Curioso che tale strapotere venga utilizzato con tanta timidezza (usiamo un eufemismo, delicatissimo) in tutte le assise internazionali.

 

Negli scorsi mesi, mentre il mondo agricolo continentale cominciava a sobbollire, a Bruxelles si stava tranquillamente preparando un'infornata di nuovi Als, Accordi di Libero Scambio. Noi sappiamo che gli Als consentono l'apertura reciproca dei mercati tra i paesi sviluppati e le economie emergenti mediante la concessione di un accesso preferenziale ai mercati.

 

Negli ultimi mesi del 2023 sono stati perfezionati gli accordi con il Cile e la Nuova Zelanda, che ora stanno per entrare in vigore. Si tratta di due paesi entrambi dotati di un forte export agricolo. La loro produzione ortofrutticola non dovrebbe (teoricamente) destare problemi in quanto è fortemente destagionalizzata rispetto a quella europea; su altri prodotti (es. latticini e carni neozelandesi) qualche problema di mercato non tarderà ad arrivare.

 

In corso sono anche le contrattazioni con Australia e, soprattutto, con i paesi del Mercosur (Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay): qui siamo nell'ambito dei super produttori di commodity agricole, dal grano alla soia, dalla canola al mais. Molto difficile non prevedere ripercussioni, anche pesantissime, sui mercati interni.


Ma di che cosa ha realmente bisogno l'Ue in termini agricoli? Quali sono i prodotti di reale valore strategico che dobbiamo oggi obbligatoriamente importare?

Un contributo a dirimere la questione ci viene da un recentissimo studio che la società di food intelligence italiana Aretè ha elaborato per conto del Parlamento Europeo. Secondo Aretè le maggiori vulnerabilità del sistema agricolo e agroalimentare europeo riguardano due prodotti: la soia e i fertilizzanti fosfatici. L'84% dei semi di soia in Ue è infatti importato (50% Brasile, 35% Usa) e il 68% dei fertilizzanti fosfatici proviene da paesi esteri (in testa il Marocco con il 28% del totale, segue - o seguiva, forse - la Russia con il 23%).

Speriamo che il Parlamento faccia buon uso della ricerca e soprattutto cominci a mandare chiari messaggi ai piani alti. Basta bilaterali selvaggi legati alla politica della miriade di lobby e micro/macro interessi che infestano Bruxelles.

Care/i ragazze/i che andrete a Bruxelles, una preghiera: lavorate secondo una strategia


La sintesi dello studio, in inglese, è consultabile a questo link
Il rapporto integrale dello studio, sempre in inglese, è scaricabile da questa pagina web