Superfici a mais in calo in tutte le principali regioni italiane produttrici (si è passati da 1 milione e 100mila ettari del 2006 con oltre 96 milioni di quintali raccolti ai 645mila ettari del 2017 con circa 65 milioni di quintali raccolti) con conseguente sempre maggiore dipendenza dalle importazioni per le filiere alimentari zootecniche e umane: nel 2017 (ultimo dato disponibile) l'Italia ha importato 5 milioni e 400mila tonnellate di mais contro i 4 milioni e 600mila del 2016 e il trend in aumento dura da anni.
Secondo Dario Frisio, economista agrario dell'Università di Milano, l'autosufficienza italiana è scesa sotto il 50%. Fra le principali problematiche da risolvere per ritrovare redditività nel settore maidicolo, da qualche anno in crisi, c'è l'emergenza aflatossine.

Le aflatossine, metaboliti secondari prodotti da funghi Aspergillus, in particolare da A. flavus e da A. parasiticus, sono riconosciute come tossiche e cancerogene per l'uomo e gli animali, ecco perché, sopra determinate concentrazioni (20 Ppb a chilogrammo), la granella di mais viene declassata ad uso energetico, con conseguente perdita di valore. Annate terribili per le aflatossine sono state il 2003 e il 2012, non a caso annate molto calde. La presenza diffusa di aflatossine in Italia è infatti molto collegata all'andamento climatico, ma molto si può fare per prevenire il problema, sia in fase di gestione agronomica della coltura, sia in fase di raccolta e stoccaggio della granella.

"La produzione di aflatossine - spiega Paolo Guardiani, responsabile assicurazione qualità di Terrepadane e fra gli esperti italiani di micotossine - è favorita da temperature alte e siccità. Alcune estati sono particolarmente adatte alla loro formazione e i cambiamenti climatici in corso non aiutano. Già nella fase di campo però si può prevenire il rischio, il resto riguarda poi la fase di stoccaggio del cereale. Il problema delle aflatossine è sostanzialmente un problema di filiera, tutti devono fare la loro parte: le ditte sementiere, gli agricoltori e gli stoccatori".
Della stessa opinione anche Diego Scudellari, agronomo dell'Op Grandi colture italiane: "Oggi - ha detto Scudellari - sappiamo bene che le aflatossine devono essere controllate con un approccio integrato che parte dal campo e arriva alla fase di stoccaggio e oltre. Disponiamo di linee guida che gli agricoltori adottano e che sono in grado di ridurre sensibilmente il rischio di contaminazione aflatossine durante la coltivazione del granturco. Le maggiori criticità si verificano in presenza di prolungato stress idrico, forte attacco di piralide, raccolta con bassa umidità della granella".

Per quanto riguarda la gestione agronomica del mais, pratiche consigliate sono la rotazione delle colture, la scelta opportuna dell'ibrido che deve essere idoneo alle condizioni pedoclimatiche della zona, una giusta densità di impianto che eviti stress idrico, un apporto ottimale e bilanciato di elementi nutritivi, la difesa contro la piralide, e una fornitura d'acqua adeguata e regolare. "Ciò che bisogna evitare - ha detto ancora Guardiani - è tutto ciò che crea stress alla pianta, in particolare lo stress idrico. Per esempio la microirrigazione è ottimale perché migliora la distribuzione dell'acqua e la sua efficacia. Il momento più delicato è quando la pianta è nella fase di fioritura, solitamente intorno al 10-15 luglio".

La fase successiva al campo, dalla raccolta allo stoccaggio, è molto delicata e ha grande influenza sulla possibilità di sviluppo di aflatossine. Ogni anno, a partire dal 2004, la Regione Emilia Romagna pubblica un protocollo d'intesa, elaborato con il contributo di esperti, che mette nero su bianco la giusta prassi per trattare la granella di mais.
"In biologia il rischio zero non esiste, ci sarà sempre un certo livello di contaminazione, ma se si fanno le cose nel migliore dei modi il rischio si può contenere. Innanzitutto quando la granella arriva al centro di stoccaggio Terrepadane - ha detto ancora Paolo Guardiani - è subito campionata e analizzata. Dopo venti minuti abbiamo già il risultato e conosciamo il livello di contaminazione. Tutte le partite sono essiccate a temperature di circa 90 gradi entro 24 ore dalla consegna e con questo passaggio il fungo non si sviluppa più. Una volta stoccato il prodotto si tratta di garantire che la granella resti sana fino alla consegna, l'umidità non deve mai superare il 14%.
La perfezione non esiste ma bisogna strutturasi. I nostri centri di stoccaggio sono dotati di sonda per campionare e campionatori meccanici, apparecchi di misurazione sempre tarati, strumenti di analisi per le aflatossine, personale preparato"
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Anche al centro di stoccaggio della cooperativa Capa Cologna, che aderisce alla Op Grandi colture italiane, si lavora per individuare immediatamente le partite a rischio. Il centro è in grado di lavorare circa 50mila quintali di granturco al giorno: "Se la partita non è a norma viene segregata e gestita a parte" ci ha raccontato ancora Diego Scudellari della Op. "Tutta la granella in entrata al centro viene pulita al verde, essiccata entro le 24 ore e nuovamente ripulita. In questo modo si evita la formazione di aflatossine e si ottiene una efficace eliminazione dei chicchi spezzati e delle polveri nei quali esse possono essere presenti".

Il 2018 sembra una buona annata dal punto di vista della problematica aflatossine: "Siamo circa a metà raccolta - ha testimoniato Scudellari - e i riscontri per ora sono positivi anche dal punto di vista delle rese produttive. Le condizioni meteorologiche rivestono un ruolo fondamentale, se durante la fase di fioritura e maturazione delle granella si verificano periodi prolungati oltre i 30 gradi associati a ripetute bolle di calore e assenza di precipitazioni, il rischio aflatossine aumenta sensibilmente così come avvenuto nel 2003 e nel 2012".