Fra dieci anni, o poco meno, nella Ue ci saranno meno suini e molti di più saranno quelli allevati in Cina. Risultato? Avremo meno opportunità di esportare in questo paese, ma potremmo rifarci con l'export dei nostri salumi e insaccati di qualità.
Ma dobbiamo fare i conti con il calo dei consumi interni, anche se poi siamo costretti a importare quantitativi consistenti per coprire i fabbisogni di una domanda che la produzione nazionale non riesce comunque a soddisfare.

Questo in sintesi il quadro che emerge da un'analisi del settore suinicolo realizzata da Ismea (Istituto di servizi per il mercato agricolo alimentare) sulla situazione del comparto suinicolo e sulle tendenze in atto per i prossimi anni.


La situazione in Italia

Si parte dall'esame della situazione italiana, che consta di un patrimonio suinicolo di circa 8,7 milioni di animali, presenti in oltre 26mila allevamenti. Il numero di suini è pressoché costante, mentre si va riducendo il numero delle aziende suinicole. La maggior parte impegnate nella produzione del suino pesante, da avviare alla trasformazione.

Sostanzialmente invariato il dato sui consumi apparenti, oltre i 38 kg anno procapite. Quasi la metà della carne suina consumata è però proveniente dalle importazioni. A fronte dei 1,5 milioni di tonnellate che escono dagli allevamenti italiani, oltre un milione di tonnellate viene dall'estero, per un totale di 2,3 milioni di tonnellate destinato alle tavole degli italiani.
Solo 280mila tonnellate prendono la strada inversa, attraverso le esportazioni. Il saldo della bilancia commerciale è di conseguenza negativo (meno 442 milioni di euro nel 2016)
 

Il ruolo della trasformazione

Una fetta importante della carne suina prodotta o importata in Italia viene assorbita dalle industrie di trasformazione, che immettono sui mercati più di un milione di tonnellate fra prosciutti e insaccati vari (1,157 milioni di tonnellate nel 2016).

Rilevante l'impegno nella produzione di salumi Dop e Igp. In Italia se ne contano rispettivamente 21 e 18, per un totale di 39 prodotti a marchio di origine.

La produzione certificata assomma ad oltre 200mila tonnellate, per un valore di 1,82 miliardi di euro, che diventano 4,46 miliardi quando si giunge al consumo, mentre 498 milioni di euro è il valore dell'export.
 

Dove vanno i consumi

La tendenza dei consumi è negativa, come per tutte le carni, e nel 2016 si è registrata una flessione che nel caso dei suini ha raggiunto il 5%.
Una parte importante di questo calo si è riflesso sulle importazioni, scese di circa 20mila tonnellate fra il 2015 e il 2016. Nel frattempo è aumentato il nostro export, cresciuto di circa 120mila tonnellate, per gran parte insaccati e salumi.

Andamento che ha permesso al settore di recuperare vigore sui mercati, dando sostegno ai prezzi e alla redditività degli allevamenti. Principale destinazione delle nostre carni trasformate sono i paesi europei, in testa Francia e Germania. Una quota significativa, ma in flessione, è assorbita dagli Usa.


Lo scacchiere mondiale

L'analisi a livello mondiale evidenzia il ruolo da protagonista della Ue nelle esportazioni di carni suine, che ha raggiunto quota 2,8 milioni di tonnellate, grazie alla spinta delle importazioni cinesi.

Sullo scacchiere internazionale la suinicoltura europea deve però vedersela con concorrenti agguerriti e in crescita. Fra questi gli Usa, al secondo posto per quantità di carni suine avviate all'export e dove si registra una tendenza all'aumento della produzione interna.

C'è anche il Canada da prendere in considerazione, fortemente competitivo sul piano internazionale, in particolare verso i mercati cinese e giapponese.

Il Brasile è al quarto posto, ma potrebbe presto guadagnare posizioni grazie all'aumento dei capi allevati e alla ripresa dell'economia interna.

Poi c'è la Cina, ago della bilancia sui mercati mondiali essendo il più grande produttore di carni suine e al contempo il maggior importatore, in particolare da Ue e Usa.

Mappa mondiale con la situazione attuale della suinicoltura e la possibile evoluzione al 2026
Scenario mondiale della carne suina al 2026
(Fonte foto: Ismea)
 

Le previsioni

Questo lo scenario attuale. Quali le previsioni? Gli analisti di Ismea si sono spinti sino al 2026 e prevedono per la Ue una tenuta della produzione che potrebbe segnare solo un lieve recupero (0,16%), così come i flussi di export (0,46%). Stabile il consumo, fermo ai 32 kg procapite, come oggi.

Se queste previsioni si realizzeranno, per il settore si annuncia un periodo di stabilità dei mercati come non si vedeva da anni. Ma come sempre le previsioni, specie a così grande distanza, vanno prese con le molle.
Lo fanno anche gli analisti di Ismea quando ricordano i punti di debolezza della nostra suinicoltura, con al primo posto la frammentazione delle strutture produttive e i forti costi di produzione.

In compenso abbiamo la tipicità delle produzioni italiane che possono darci forza sul fronte dell'export. Ma a proposito di prodotti tipici bisogna fare i conti con la debole difesa delle Dop sui mercati internazionali e con la forte variabilità dei costi di alimentazione. E poi si vedrà come evolveranno le nuove tendenze dei consumi, che oggi premiano le diete senza carne.
 

Obiettivo, filiere organizzate

Le variabili del mercato sono dunque molte e nessuna di queste può essere influenzata dal singolo produttore. Che però può mettere in atto le strategie necessarie per non farsi trovare impreparato di fronte a un mercato con il segno meno davanti.

Le parole d'ordine sono sempre le stesse, efficienza degli allevamenti (che coincide con salute e benessere degli animali) e attenzione alle innovazioni per mantenere i costi sotto controllo. E poi aprirsi a logiche di filiera partecipata, non importa in quale forma (cooperativa, associazionismo, organizzazione dei produttori o altro ancora). Perché non è più tempo di isolazionismo.