La linea vacca-vitello per rilanciare la zootecnia da carne made in Italy, oggi fortemente dipendente dall’estero. Ma anche una maggiore attenzione alla qualità delle carni, ai tagli, alle ricette del territorio. Senza dimenticare un percorso di etichettatura trasparente e un filo diretto fra i produttori, le macellerie e i supermercati.

A dirlo all’Ufficio stampa di Eurocarne, rassegna internazionale dedicata alla filiera delle carni, in programma a Verona dal 10 al 13 maggio 2015, sono il primo consorzio di carne bovina ad aver adottato il sistema di certificazione volontaria (era il 1982), ma anche altri due addetti ai lavori, due produttori di bovini della provincia di Mantova, uno dei quali proprietario di una macelleria, alla quale fornisce naturalmente la carne prodotta localmente in azienda. La Lombardia rappresenta una delle prime tre regioni italiane per numero di allevamenti e di capi allevati.
Il messaggio alla filiera è piuttosto immediato: la valorizzazione della carne bovina in termini di redditività passa anche attraverso la cultura e la conoscenza più approfondita del prodotto.

L’allevamento a ciclo chiuso.
"Abbiamo scelto la linea vacca-vitello e l’allevamento di capi di razza Limousine a ciclo chiuso per aumentare il valore aggiunto in termini di redditività - dichiara Riccardo Comparini, titolare insieme al padre Mario di un’azienda agricola con 150 animali allevati a Bigarello -. Oggi i prezzi di mercato sono calati notevolmente e sono scesi anche a 2,70 euro al chilogrammo, allo stesso livello ormai della carne nata, allevata e macellata in Francia, dove però la competitività è maggiore rispetto alla Pianura padana".
Parliamo di prezzi di vendita che non coprono più i costi di produzione né assicurano la remunerazione del lavoro dell’allevatore, dicono Riccardo e Mario Comparini. "Bisognerebbe che il mercato riconoscesse cifre superiori per la qualità italiana e che sulla riforma della Pac si trovasse la strada per garantire un ristorno economico a chi, come noi, segue la strada del ciclo chiuso - prosegue Riccardo Comparini -. Avere una produzione tutta italiana è una risorsa per il Paese, non solo per l’allevatore". La soluzione? "Invitare al tavolo delle trattative l’industria di macellazione, la trasformazione e la grande distribuzione organizzata, per ridiscutere i margini di guadagno, troppo sbilanciati verso la gdo".

Il consorzio Carne bovina documentata
La soluzione sostenuta da Primo Cortellazzi, presidente del consorzio Carne bovina documentata, 400 soci in tutta Italia e oltre 100mila capi bovini allevati col marchio dell’ente consortile, riguarda "l’etichettatura della carne, una tracciabilità che sia davvero in grado di distinguerla da un prodotto massificato". Secondo Cortellazzi, "è ormai giunto il momento di fare sistema, di promuovere i marchi consortili, di assicurare una qualità superiore che, attraverso le macellerie, i negozi di prossimità, il chilometro zero e i supermercati di piccole dimensioni, deve essere spiegata ai consumatori. Altrimenti avremo ogni volta alle porte il pericolo di importazioni massicce e sottocosto dal Brasile, dalla Polonia o da altri Paesi dove la leva del prezzo viene attivata senza difficoltà".
Fondamentale, riconosce il numero uno del consorzio Carne bovina documentata, "la collaborazione fra tutti gli attori della filiera, perché con appena il 7 per cento di animali nati in Italia, o si inverte la rotta oppure muore l’allevamento".
E per una terapia d’urto in grado di sostenere la zootecnia bovina da carne, "si potrebbe partire con un progetto regionale, per poi estenderlo su scala nazionale. Il dialogo con l’assessore lombardo all’Agricoltura, Gianni Fava, è assolutamente costruttivo e all’insegna della collaborazione".

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