Sin dai tempi dei romani la Spagna è sempre stata il primo produttore mondiale di olio di oliva, mantenendo un certo tradizionalismo nelle tecniche produttive. Ancora oggi negli oleifici spagnoli predomina il processo detto “a tre fasi”, il quale rende un olio dal sapore più delicato, ma genera fino a 1,8 m3 di acque di vegetazione per ogni tonnellata di olive processata. Si tratta di un refluo dall’elevatissimo potenziale inquinante, tipicamente compreso fra 50 e 150 g COD/l , caratterizzato dalla presenza di polifenoli, peptidi e polisaccaridi complessi, i quali lo rendono difficilmente biodegradabile.
Il secondo materiale di scarto prodotto dalla lavorazione è la sansa, la quale contiene fra 50 e 60% di acqua, ma in Spagna questa viene consumata negli stessi oleifici, bruciando la sansa esausta per essiccare la sansa fresca, dalla quale poi viene ricavato l’olio omonimo mediante l’estrazione con solventi.

Tradizionalmente, le acque di vegetazione vengono pompate in “balsas”, serbatoi semplicemente scavati nel terreno adiacente l’oleificio ed impermeabilizzati con una guaina plastica, dove rimangono a evaporare e subire una lenta degradazione aerobica e fotolitica, fino a quando, nella successiva stagione, non vengono impiegate come diserbanti e concimi naturali negli stessi uliveti. Da sempre si cerca una soluzione alternativa alla suddetta primitiva (e puzzolente!) tecnica di trattamento, e sono innumerevoli le pubblicazioni di diversi enti di ricerca spagnoli (ma anche greci e italiani) sulla digestione anaerobica delle acque di vegetazione.

L’ultimo ritrovato è un processo, proposto da un consorzio di ricerca nell’ambito del 7° Programma Quadro dell’Ue, che pretende valorizzare l’esigua produzione di biogas delle acque di vegetazione (meno di 5 l di metano per m3 di acqua di vegetazione) ricorrendo alle celle di combustibile. Il Consorzio Biogas2Pem-FC, a netta maggioranza spagnola con alcuni partner inglesi, svedesi e greci, non include purtroppo nessun partner italiano.

Nonostante le ottimistiche previsioni pubblicate nella pagina web del 7° Programma Quadro, la combinazione di tecnologie proposte per l’intero processo desta molta perplessità. La figura 1, tratta dal filmato diffuso dallo stesso Consorzio, esemplifica la fasi del processo, costituito da uno stadio di digestione anaerobica, uno stadio di reforming (reazione di metano e vapor d’acqua con lo scopo di produrre idrogeno e monossido di carbonio), la separazione del monossido di carbonio e finalmente la conversione dell’idrogeno risultante in energia elettrica mediante una cella a combustibile.

Il primo dubbio che desta la tecnologia in questione si basa su considerazioni puramente termodinamiche: sebbene sia vero che le celle a combustibile abbiano un alto rendimento di conversione in energia elettrica (se riferito al potere calorifico inferiore dell’idrogeno), la necessità di consumare energia nel processo di reforming del biogas sembrerebbe vanificare il vantaggio della cella di combustibile rispetto ai cogeneratori tradizionalmente impiegati nel settore del biogas. Infatti, le celle a combustibile risultano convenienti quando si ha a disposizione dell’idrogeno ad alta purezza e basso costo, come nel caso della produzione di materie plastiche, di cui l’idrogeno è un sottoprodotto.

Figura 1
Schema del processo di utilizzazione delle acque di vegetazione a mezzo cella di combustibile.
Fotogramma tratto dal filmato ufficiale del progetto Biogas2Pem-FC, pubblicato su Youtube

Inoltre, anche la selezione della tecnologia della cella a combustibile operata dal Consorzio Biogas2Pem-FC risulta piuttosto dubbiosa. Per capire quando e come conviene utilizzare le celle a combustibile di ogni tipo, torna molto utile la tabella 1, tratta dal sito del Doe (Department of Energy del governo statunitense), la quale riassume le tecnologie attualmente disponibili.

Scarica la tabella per la comparazione fra diversi tipi di celle di combustibile, secondo il Doe statunitense.
Traduzione di Mario A. Rosato. Fonte: Office of energy efficiency and renewable energy

Alla luce della tabella 1, la scelta di una cella di combustibile tipo Pem sembra proprio la meno saggia in assoluto, in quanto si tratta della tipologia più sensibile alle impurità nel gas. Inoltre, lavora a bassa temperatura, per cui è necessario raffreddare il gas prodotto nello stadio di reforming, recuperando solo calore a bassa entalpia. Sembrerebbe più logico utilizzare una cella di tipo Sofc, più tollerante alle inevitabili impurità contenute nell’idrogeno prodotto a partire da biogas, e recuperare il calore ad alta entalpia in uscita dal processo di reforming per riscaldare direttamente la cella. Tutto sommato, quando si considera l’input energetico richiesto dal processo di reforming, l’efficienza globale del sistema biogas-reformer-cella di combustibile appare dello stesso ordine, o forse perfino inferiore rispetto a quella di un ciclo termodinamico convenzionale.

Finalmente, l’obiettivo di costo del sistema definito dal progetto, 20.000 euro/kW installato, sembra decisamente fuori mercato. Considerando un potere metanogenico pari a 5 Nl/m3 di acque di vegetazione tale quali (alle quali è necessario aggiungere dei liquami suini, in genere scarsi nelle zone ad alta produzione oleicola) l’economicità del sistema proposto risulta piuttosto dubbiosa.

Figura 2
Il prototipo del sistema di digestione anaerobica e cella di combustibile, installato in un oleificio sociale spagnolo.
Fotogramma tratto dal filmato ufficiale del progetto Biogas2Pem-FC, pubblicato su Youtube

Dai risultati del progetto in questione pubblicati nel portale della Ue, sembra che sarà necessario aspettare ancora molto tempo per vedere un impianto di biogas operante con celle a combustibile. Per ora, la tecnologia più promettente per l’utilizzo del biogas rimane l’upgrading a biometano, e in questo senso la Spagna non è diversa dall’Italia: entrambe le nazioni sono molto indietro nell’applicazione delle direttive europee per la liberalizzazione del mercato degli idrocarburi.