Comunque andrà la protesta in Germania, hanno vinto gli agricoltori. Già, perché potete chiamarli come meglio credete, agricoltori, o se lo ritenete e siete ottimisti, imprenditori agricoli, o ancora contadini, se siete nostalgici. Ma pensiamoci bene.

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Per troppo tempo ci siamo sentiti dire che la categoria più importante del pianeta - quella che produce cibo, ma anche energia, e persino cura l'ambiente e il paesaggio e permette a tutti noi di andare a mangiare e dormire in posti bellissimi in mezzo alla natura e agli animali - era pressoché inesistente, irrilevante politicamente, in via di estinzione sul piano politico.

 

Provate a raccontarlo ai 100mila trattori che, almeno secondo le stime del presidente della DBV, il principale sindacato agricolo tedesco, hanno invaso le strade e le piazze della Germania, contestando il primo Paese agricolo d'Europa, l'economia (almeno apparentemente) più sana, per anni considerata la locomotiva dell'Unione Europea, almeno nell'era di Angela Merkel.

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Quindi, come stanno le cose? Gli agricoltori contano o no? E quanto valgono? Domande che gli stessi agricoltori europei, sempre più esasperati, ci stanno obbligando a porci, costringendoci a fare i conti con una nuova visione di Europa, di agricoltura, di modelli produttivi che non possono predicare allo stesso tempo la sovranità alimentare e ottemperare ciecamente alle norme comunitarie che vorrebbero una transizione ecologica talebana, umiliante per la produttività in campo e per le casse delle imprese agricole.

 

Si fa presto, poi, a sperare in una ripresa dei mercati, dei prezzi, pregare che l'inflazione diminuisca, che riprendano le esportazioni, che la domanda sia più vivace dell'offerta e che i prezzi di latte, suini, carne bovina, cereali, semi oleosi imbocchino un'autostrada velocissima verso l'alto. E il 2024, a ben vedere, e per alcuni di questi settori appena citati (il lattiero caseario, i maiali, forse anche i cereali e i semi oleosi) potrebbe davvero regalare qualche soddisfazione agli agricoltori. E forse i costi di produzione potrebbero restare su livelli inferiori al 2022, anno record in cui il costo dell'energia e dei fertilizzanti ha toccato vette in precedenza nemmeno ipotizzate.

 

Resta un ma. E cioè: ma quali saranno i costi della transizione verde? Davvero gli agricoltori si ritroveranno a pagare di più per il gasolio agricolo, per osservare le norme ecologiche, per ottemperare alle fasce tampone, per inventarsi nuove formule di rotazione colturale perché quelle conosciute fino a pochi mesi fa non garantiscono più il riconoscimento pieno dei contributi Pac?

 

In linea teorica potrebbe essere accettabile eliminare i famosi Sad, i Sussidi Ambientalmente Dannosi, nei quali rientra anche il gasolio agricolo. Ma come lo sostituiamo? Un amico imprenditore agromeccanico, da tempo, non si pone il problema dell'eliminazione delle agevolazioni fiscali, perché, come spesso mi spiega, per quelle forse potrai recuperare i costi aumentando le tariffe di lavorazione, ammesso che gli agricoltori siano disponibili a pagare di più (e quindi a dover stringere di più la cinghia).

 

Quello che non torna è il sillogismo, di per sé: se elimino gli aiuti fiscali ai carburanti fossili perché li considero inquinanti e se, dunque, togliendo le agevolazioni in teoria invito gli agricoltori e i contoterzisti a rivolgersi verso altre fonti energetiche per movimentare trattrici e mezzi agricoli, a quali risorse mi sto rivolgendo? Detta in maniera più rude: che alternative ci sono, oggi, come propulsioni dei trattori, in grado di svolgere lavori per molte ore in maniera efficiente e non solo sulla carta? E quanto tempo ci vorrà per rinnovare il parco macchine agricole per veicoli green? Ancora: uno Stato che punta a eliminare gli aiuti sul gasolio agricolo perché sporco, cattivo e inquinante, quanto investe in ricerca pubblica e in aiuti per accelerare sulle propulsioni verdi e le tecnologie meno impattanti?

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Parliamo spesso di "greenwashing" con riferimento alle azioni fintamente ecologiche sbandierate dalle imprese della filiera, ma abbiamo mai pensato di affrontare l'argomento da una prospettiva completamente ribaltata? E cioè da quegli obblighi di legge che impongono alle imprese agricole di compiere (o di evitare) determinate azioni, che dietro l'aura verde, nulla hanno di effettivamente rispettoso per l'ambiente? Non dovrebbe essere anche quella annoverata come truffa o, almeno, pubblicità ingannevole?

 

Nell'anno che vede la prossima primavera il voto in tutta Europa per rinnovare il Parlamento e gli organi di Governo, gestione, funzionamento dell'Ue, il grido di allarme degli agricoltori e degli allevatori dovrebbe essere tenuto debitamente in considerazione.

Non saranno certo la metà della popolazione lavorativa come erano negli Anni Quaranta e Cinquanta del secolo scorso, ma stanno dimostrando di avere le idee chiare e una voce tutt'altro che balbettante quando si tratta della sopravvivenza del settore.

 

Sarebbe auspicabile che anche l'Unione Europea riflettesse sul ruolo di una vera, concreta, equilibrata transizione ecologica. Che sia effettivamente verde e non di facciata. E che protegga gli agricoltori, le loro famiglie e che migliori la produzione in campo in termini qualitativi e quantitativi. Altrimenti dovremo fare i conti con nuove chiusure di imprese agricole, nessun ricambio generazionale o forti rallentamenti nell'ingresso di giovani imprenditori e lavoratori. Per non parlare della contrazione delle produzioni agricole e della necessità di incrementare le importazioni. E siamo sicuri che nel resto del mondo dedicheranno la stessa attenzione alla sostenibilità?