Hard Brexit, come sembra aver deciso di irrigidire i termini della questione il primo ministro britannico Theresa May, oppure procedure soft? Strategie dalle quali dipenderà il futuro anche dell’agroalimentare dei sudditi di Sua Maestà la regina Elisabetta.
E prevedere in anticipo quali saranno le conseguenze concrete da un atteggiamento piuttosto che dall’altro è alquanto arduo, se è vero come è vero che persino i più quotati analisti avevano previsto lo scorso giugno la vittoria del “Remain”, smentita – seppure per pochi punti percentuali – dalla volontà di abbandonare l’Unione europea.

La premier May è disposta a portare il Paese fuori dal mercato unico pur di ridurre l'immigrazione dall’Unione europea. Una "hard Brexit" dunque, un taglio netto che prevede anche l’uscita dall’unione doganale e dalla giurisdizione della Corte di Giustizia. È quanto annuncerà, secondo la stampa inglese, l’inquilina di Downing Street 10.

May vuole l’uscita dall’unione doganale per negoziare accordi commerciali con il resto del mondo. A partire magari dagli Stati Uniti di Donald Trump, spinti dal vento del protezionismo per realizzare il sogno del suo presidente: “Make America great again”, far ritornare gli Usa una potenza di vertice su scala mondiale. E dalle dichiarazioni degli ultimi giorni del tycoon newyorkese, che ha lodato la Brexit come “una gran cosa”, sembra che un’intesa fra Usa e Regno Unito sia molto probabile. Un eventuale agreement fra Stati Uniti e Uk rilancerebbe un asse transatlantico e metterebbe in posizione di difficoltà sul piano del peso internazionale l’Unione europea, da tempo peraltro poco brillante sul versante delle relazioni internazionali e della politica estera.

Per l’ex ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, unico italiano invitato alla cerimonia di insediamento di “The Donald”, in programma il prossimo 20 gennaio a Washington, siamo di fronte alla fine dell’era della globalizzazione. E potrebbe anche essere difficile dargli torto, alla luce delle tendenze a fare da sé anche di altri due grandi ex imperi: la Russia di Putin e la Cina di Xi Jinping. Realtà particolarmente attente al rilancio dell’agricoltura come motore dell’economia, accanto all’innovazione.

Tornando alla Brexit, la premier britannica May potrebbe avere dalla propria parte – in barba appunto ai gufi catastrofisti della vigilia del referendum del Regno Unito – i risultati degli andamenti economici.
Nel terzo trimestre quella del Regno Unito è cresciuta del 2,2%, il dato migliore degli ultimi cinque trimestri, di mezzo punto superiore al +1,7% fatto segnare dai paesi dell’Eurozona.

Tutto semplice? Non esattamente. Il governo di Londra dovrà tenere conto anche del settore agricolo e alimentare. Nel complesso, solo il settore inglese degli alimenti e delle bevande impiega 3,9 milioni di persone, e ha un valore di oltre 108 miliardi di sterline l’anno.

Nelle scorse settimane 75 dei maggiori produttori e negozi di alimentari del Regno Unito hanno chiesto di poter continuare ad avere accesso al mercato unico e alla manodopera europea dopo la Brexit. Una posizione dunque in contrasto con le linee negoziali che potrebbe adottare la premier May.
Le aziende - tra le quali Sainsbury’s, Dairy Crest, e Weetabix - hanno firmato una lettera aperta proprio al primo ministro, per rimarcare l’importanza del settore per la più grande economia del Regno Unito, e la necessità di mantenere il libero scambio e l’accesso ai lavoratori europei.
Per il nostro settore, mantenere l’accesso esente da dazi al mercato unico dell’Unione europea è una priorità assoluta”.

Il settore ha bisogno di accedere al lavoro stagionale e permanente di cittadini europei ed extraeuropei – prosegue la missiva - e di avere garanzie in merito al fatto che ai lavoratori dell’Ue, che già lavorano in modo permanente in Gran Bretagna, sia consentito di restare. Questo accesso al lavoro è fondamentale perché è alla base della consegna puntuale, da parte della catena alimentare inglese, di alimenti di alta qualità a prezzi accessibili per i consumatori”.

Poco meno di un terzo dei lavoratori impiegati nella lavorazione alimentare inglese proviene dall’Unione europea, secondo la Resolution Foundation - più di tre volte, rispetto alla media registrata in tutti i settori. Ogni anno, ad esempio, il settore ortofrutticolo inglese impiega 80.000 lavoratori stagionali, e, nel 2020, il loro numero dovrebbe salire a 95.000.

A coordinare le richieste è stato il sindacato degli agricoltori, la National Farmers Union (Nfu) guidata da Meurig Raymond. “La sicurezza alimentare, la sicurezza e l’igiene degli alimenti, il mantenimento del paesaggio, e la disponibilità di generi alimentari a prezzi accessibili” sarebbero tutti fattori a rischio, qualora la Brexit dovesse interrompere il flusso di lavoratori europei, e aumentare le difficoltà delle esportazioni dirette verso l’Unione europea.

Insomma, per il numero uno Raymond, allevatore gallese, “la Brexit crea un’enorme opportunità per l’agricoltura, per la produzione alimentare, e per la Gran Bretagna, ma per consegnare questo nuovo futuro, dobbiamo garantire il miglior accesso possibile al mercato unico e continuare ad avere accesso a una manodopera competente e affidabile. Così facendo si getteranno le basi per una nuova politica agricola inglese di successo”.

Allo stesso tempo, l’Nfu desidera mantenere tariffe doganali su prodotti provenienti da paesi come Brasile e Nuova Zelanda che entrano nel Regno Unito, e, in una recente pubblicazione, ha scritto testualmente che “molte aziende agricole inglesi non sarebbero in grado di sopravvivere se le attuali barriere tariffarie venissero rimosse o tagliate”.

Restando in ambito alimentare, la star britannica dei fornelli, Jamie Oliver, ha comunicato la chiusura di sei ristoranti della catena Italian nel Regno Unito, per effetto della Brexit e del calo della sterlina e dell’incertezza, anche se le ragioni – secondo alcuni – sarebbero imputabili agli elevati costi di gestione e alla concorrenza agguerrita delle altre catene di ristoranti.

Dalle colonne dell’Irish Times il commissario europeo all’Agricoltura Phil Hogan, irlandese di Kilkenny, parla della sfida che si apre con la Brexit. “L’uscita del Paese ci sarà e abbiamo ora bisogno di attuare una svolta strategica e lungimirante per i nostri rapporti sia con il Regno Unito sia con il resto dei nostri partner europei. Ci sarà una nuova dinamica negli affari europei, e l’Irlanda ha bisogno di essere assolutamente pronta a influenzare, formare e supportare questa dinamica e questo cambiamento. Se non saremo noi che gestiremo questo cambiamento fondamentale nel rapporto con i nostri vicini europei, saranno poi gli altri a decidere le condizioni per noi”.

Anche i rapporti politici fra Dublino e Londra dovranno essere ripensati secondo le nuove coordinate e le circostanze politiche e legali mutate. “Sarebbe un errore enorme da parte nostra fare un eccessivo affidamento sul rapporto bilaterale con il Regno Unito e pensare che sia il mezzo migliore per assicurare la più alta protezione degli interessi strategici dell’Irlanda – prosegue Hogan -. E anche se nessuno di noi desidera la Brexit, è una realtà che ora abbiamo di fronte. Ma senza volerlo, la Brexit può rappresentare per l’Irlanda la possibilità di sviluppare la prossima fase del nostro sviluppo e cogliere la maturità come stato sovrano”.

Un passaggio che, ne è convinto il commissario europeo all’Agricoltura, “ci costringerà a stringere relazioni e a plasmare il nostro destino all’interno della Unione europea senza la presenza del nostro alleato più vicino e più forte dal 1973. Data la posta in gioco, dobbiamo cogliere questa sfida ora. In tal modo, abbiamo la possibilità di ridefinire e riaffermare la posizione dell’Irlanda sia nell’impegno europeo che nei rapporti di buoni vicini di casa”.