Cinquecento milioni di abitanti, dei quali 48 milioni impiegati nel settore agroalimentare, 10,8 milioni di aziende agricole, che gestiscono il 50% del territorio europeo, produzioni tipiche, sicurezza alimentare elevata, un’immagine trainata da veri e propri simboli come il made in Italy, la cucina francese, la forza di una determinatissima Spagna.

Eppure l’Unione europea non riesce a trovare una direzione comune nella politica agricola e in quella internazionale, rigorosamente legata al trade dell’agroalimentare. Lo aveva detto nelle scorse settimane Paolo De Castro, due volte ministro, oggi parlamentare europeo: “Il rischio che stiamo correndo è che per andare oltre la crisi, si vada oltre la Pac, con una lenta e inesorabile ri-nazionalizzazione”.

La Pac funziona a singhiozzo. I ritardi sui pagamenti hanno colpito le aziende agricole di molti Paesi dell’Ue e le vibranti proteste degli agricoltori francesi – che quando si tratta di protestare non scherzano – sono una delle ultime manifestazioni di dissenso contro un’Europa abbastanza debole e divisa. Il caso immigrati (a proposito, il ministro tedesco Schmidt ha sostenuto nei giorni scorsi al Frankfurter Allgemeine Zeitung che il lavoro ausiliario in campo agricolo non è la strada giusta per favorire l’integrazione dei rifugiati) è emblematico.

In agricoltura non va meglio. Si ragiona ancora poco in termini di Europa e financo moltissimo in termini di singolo Stato membro. È un “tutti contro tutti”, proprio mentre i prezzi di vendita delle materie prime non coprono in molti casi i costi di produzione. E la tendenza non sembra essere prossima a inversioni di rotta.
La burocrazia e le “enormi difficoltà amministrative”, come le ha definite il ministro francese Stefan Le Foll, finora hanno avuto una conseguenza decisamente vessatoria nei confronti degli agricoltori, che scontano ritardi eccessivi nell’erogazione della Pac, nient’affatto trascurabili in una fase di crisi.

Riavvolgendo di qualche mese il nastro del tempo, i mal distribuiti 500 milioni di euro per le politiche a tutela degli allevatori di vacche da latte sono un’altra voce che conferma che lo spartito viene suonato un po’ a caso. Certo, Martina può dire che è stato un successo confermare la disponibilità di quelle risorse nel settore dell’agricoltura, visto che la Commissione targata Barroso voleva rimetterli nella cassaforte comune. Però distribuirli come si è scelto di fare, senza alcuna attenzione precipua agli Stati membri del Sud Europa - quasi tutti in sistematico deficit produttivo di latte - è parso più un regalo (inefficace, comunque) al blocco del Centro-Nord Europa, che non l’adozione di una strategia sensata.
A queste conclusioni era arrivato, all’indomani dell’adozione del provvedimento straordinario, il fondatore di Clal.it, Angelo Rossi, trovando anche altri interlocutori allineati su tale posizione.

A distanza di mesi il sindacato spagnolo Unions Agrarias ha chiesto che eventuali soluzioni legate all’adozione di una strategia di riduzione della produzione lattiera siano coordinate e condivise, sulla base di dati oggettivi, che facciano approdare l’Ue ad una riduzione specifica per ogni Paese comunitario, sulla base degli effettivi aumenti di produzione, della domanda interna e delle eventuali eccedenze.
La dialettica su come destinare le risorse e su come soprattutto trovare la strada per uscire dal tunnel necessita di ampi consensi, che al momento non sembrano esserci, nonostante qualcosa si stia muovendo e che l’Italia forse non brilli per dinamismo.

Germania e Polonia hanno avviato un dialogo per rafforzare la cooperazione nel settore della politica agricola europea, un’alleanza già destinata a espandersi con il coinvolgimento della Francia. E, a quanto pare, è già stato fissato un incontro nell’ambito del cosiddetto “Triangolo di Weimar”. Piccola nota: Francia, Germania e Polonia sono i primi tre Paesi europei per produzione di cereali e fra le prime cinque economie agricole del continente. E l’Italia? Con chi sta dialogando?

L’Unione europea arranca anche in chiave di rapporti internazionali. Nei giorni scorsi il commissario europeo Phil Hogan ha organizzato in Cina e Giappone una missione di alto livello con aziende e associazioni europee dell’agroalimentare. Una iniziativa molto positiva, alla quale ho preso parte. Hogan ha così inteso affiancare a un piano diplomatico-istituzionale, che ha condotto personalmente con i vari ministri e dignitari dei due Paesi asiatici, un livello di business, mostrando immediatamente a Cina e Giappone la volontà di avviare rapporti commerciali seri, immediati e di qualità. Ci riuscirà? L’obiettivo non è facile, perché in gioco, in parallelo – e in fase molto più avanzata – ci sono gli accordi del Tpp (Trans Pacific Partnership).
Entrambi i Paesi, inoltre, non si sa bene fino a che punto concedano riconoscimenti alle produzioni Dop e Igp, eliminino i dazi (per inciso: il Cile non li ha più per esportare vino in Giappone e ha scavalcato a livello commerciale la Francia), collaborino sul fronte della sicurezza.

In fase di stallo è anche il Ttip, l’accordo di libero scambio con gli Stati Uniti. Dal G7 di Niigata, il commissario Hogan non ha trascurato di mostrarsi fiducioso, ma l’impressione è stata che il suo ottimismo ne sia uscito scalfito. Al summit agricolo dei 7 Grandi era presente anche il segretario Usa all’Agricoltura, Tom Vilsack: insistere in sua presenza sulla questione delle indicazioni geografiche avrebbe rappresentato quanto meno una indelicatezza istituzionale. È uno scenario in salita.

Rapporti tesi anche nel negoziato – che dovrebbe inaugurarsi ufficialmente nella seconda settimana di maggio – fra Unione europea e Mercosur (Brasile, Argentina, Uruguay, Bolivia e Paraguay). La Francia guida il fronte del no, sostenuta da altri 12 Paesi (Polonia, Austria, Grecia, Cipro, Irlanda, Ungheria, Romania, Lituania, Estonia, Lettonia, Slovenia, Lussemburgo), con l’obiettivo di escludere i contingenti tariffari nel settore agricolo, in cui i Paesi del Sud America sono più competitivi.

Vista dall’alto, l’Europa appare piccola piccola.