L’Ansa lancia una new che se non ci fosse da piangere ci sarebbe da ridere. I formaggi di pregio italiani verrebbero infatti importati dalla Bielorussia e poi rivenduti a Mosca come alimenti di produzione nazionale. In pratica, nei ristoranti russi si può continuare a godere di una bella grattugiata di Grana o di Parmigiano, solo che all’apparenza i due formaggi sarebbero chicche gastronomiche prodotte a Minsk, capitale appunto della Bielorussia. Il Paese ex-sovietico, infatti, non ricade nell’obbligo di aderire all’embargo contro la Russia, rea di ingerirsi anche per via militare negli affari interni della vicina Ucraina. Quindi, in quattro e quattr’otto si sarebbe aperto un fruttuoso canale diretto fra importatori bielorussi svelti negli affari e produttori italiani, i quali di buttare a mare tonnellate di prodotti proprio non ne volevano sapere. E con ottime ragioni, vi è da dire, perché le beghe internazionali, chissà perché, alla fine penalizzano alcune categorie più di altre, lasciando per giunta molte perplessità sul reale livello di efficacia di certe sanzioni.

Non che ai consumatori russi questo business costi nulla: sui prezzi antecedenti l’embargo è stato ovviamente posto un ricarico medio del 20% sui prezzi. Logico, più si allunga la catena di trasporto del valore, più intermediari vogliono la loro parte.
E quindi i prezzi aumentano.
Ovviamente, il business della triangolazione al formaggio è come il classico segreto di Pulcinella. Tutti sanno e tutti fan finta di non sapere. Del resto, il Parmigiano è forse il formaggio al Mondo con più tentativi d’imitazione, quindi la trovata commerciale bielorussa non è poi neanche tanto originale, se vogliamo. Tant’è vero che Sergej Lavrov, Ministro degli Esteri russo, avrebbe addirittura affermato che “[…] qualsiasi genere di formaggio può essere prodotto se s’investe in sforzi e conoscenza. Questo non è un problema''.

Come dargli torto? Tutto sommato, se anche l’Italia produce parte dei suoi salumi e formaggi più blasonati (con tanto di marchi Igp) importando carni e latte dall’estero, il confine far realmente tipico e “origine di facciata” rischia di diventare molto labile agli occhi di chi di maiali e di vacche ne possiede molti di più che il Bel Paese. E qui sta forse il nocciolo della questione: se in Cina è stata perfino fondata una città con il nome Parma, pur di poter produrre un prosciutto crudo e fregiarlo con un marchio pressoché identico a quello del nobile Casato d’origine, cosa può impedire a un caseificio russo di prodursi un formaggio se non uguale per lo meno simile al Parmigiano? Le tecnologie non hanno infatti confini e le vacche al pascolo ci sono anche al di qua dei Monti Urali.

Rispetto a tali inquietanti scenari, meglio forse il mercato triangolare Parma-Minsk-Mosca. Perché un embargo come nasce poi muore. Passa e va. E se nel frattempo sono state trovate scappatoie commerciali esso non lascia neanche strascichi particolarmente gravi. Se invece a causa di quell’embargo una nazione viene stimolata a fare da sé, anche in barba a ogni più elementare rispetto delle regole commerciali internazionali, allora la cosa si complica. Perché poi, forse, il popolo di quel Paese non è più disposto a pagare 100 quello che in Patria trova a 50, anche se con il nome di Granoff  o Parmijanski.
 
Meglio quindi che si mediti sui potenziali costi di azioni punitive che a fronte di risultati miseri dal punto di vista geopolitico possono creare danni enormi a interi comparti economici.