Quando si tratta di allarmismo chemofobico la sequenza dei fatti segue sempre un canovaccio pressoché identico, sia che si tratti di "pesticidi nelle acque", sia che si tratti di "residui negli alimenti". Ultimo caso negli Stati Uniti, in cui la Ewg, acronimo di Environmental Working Group, ha prodotto un documento battezzato "La sporca dozzina", con l'elenco degli alimenti a maggior presenza di residui facendoli ovviamente passare per dannosi agli occhi dei loro lettori. Considerando che in America la stima dell'ingestione annua di residui nell'ortofrutta suggerisce valori di pochi milligrammi, vediamo come stanno in realtà le cose.


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Part II: The Clean 18 - Usda finds almost no pesticide-related health concerns from fruits and vegetables grown on American farms, while data on organic food is lacking

I monitoraggi americani

Il Pesticide Data Program (Pdp), avviato in America nel 1991, si concentra sulla misurazione dei residui di agrofarmaci negli alimenti che siano fondamentali soprattutto nella dieta dei bambini. Quindi ortofrutta in generale e in particolare mele, succo di mela, banane, carote, uva, fagiolini, succo d'arancia, pesche, pere, patate, e pomodori. 


L'Usda diffonde annualmente i dati ricavati dai monitoraggi sui residui, i quali si mostrano complessivamente sicuri per la salute dei consumatori essendo ampiamente rispettosi dei limiti stabiliti dalle normative.

 

Nei 9.600 campioni testati nel 2020, per esempio, sono stati rilevati 19.679 residui, con una media di 2,05 sostanze attive per campione. Questi sono per lo più a concentrazioni molto basse, con una media di 0,058 milligrammi per chilo. La concentrazione mediana è stata pari a 0,012 mg/kg e il 95% dei rilevamenti ha mostrato valori inferiori a 0,21 mg/kg (95.esimo percentile). Valori quindi misurabili solo grazie alle tecnologie analitiche utilizzate, alquanto sofisticate. Inoltre, considerando le stime sui consumi di ortofrutta elaborate in America, annualmente verrebbero consumati circa 310 chili pro capite di frutta e verdura. Anche considerando il valore di 0,21 mg/kg, si può stimare quindi un'assunzione di 65 mg/anno circa. Adottando invece il valore medio, pari a 0,058 mg/kg, si scende ulteriormente a soli 18 mg/anno. Ovviamente, al netto dei processi di sbucciatura e cottura, i quali possono solo che diminuire ulteriormente tale dato.

 

Dal punto di vista delle quantità, questo dato equivale pressoché a zero. Basti pensare che in una sola tazzina di caffè espresso possono esservi dai 50 agli 80 milligrammi di caffeina. Una tazzina di caffè fatto con la moka, cioè circa 50 millilitri, può contenerne fino a 120 milligrammi. E la caffeina è tossicologicamente molto peggio della maggior parte degli agrofarmaci oggi impiegati in campo. 

 

Sapendo quindi che è la dose a fare il veleno, ci si deve ora interrogare se quei 18 o anche 65 mg/anno rappresentino o meno un rischio per la salute.


Valutazione del rischio

Premessa: il 97,9% dei campioni sarebbe risultato conforme dopo il confronto con le tolleranze ammesse dall'Epa, stabilite in base ai profili tossicologici di ogni molecola. 


Dal punto di vista del rischio per la salute, le diverse sostanze attive sono state valutate confrontando i risultati analitici (residui) con le soglie di tolleranza fissate dall'Epa su base tossicologica e i risultati sono oltremodo interessanti:

  • Il 12,4% è risultato fra la soglia di tolleranza prefissata e livelli 20 volte al di sotto di essa;
  • Il 29,5% mostra residui che si posizionano fra le 20 e le 100 volte al di sotto della tolleranza;
  • Il 31,4% fra le 100 e le 500 volte inferiori;
  • Il 20% fra le 500 e le 2.500 volte;
  • Il 4,7% oltre le 2.500 volte.

Solo lo 0,4% dei campioni si è mostrato superiore alla soglia di tolleranza, mentre l'1,7% dei casi ha mostrato residui per i quali non vi sono soglie di tolleranza per lo specifico binomio molecola-coltura. In pratica, sono sostanze attive trovate su prodotti per i quali non esistono limiti prefissati. Ovvero, probabili usi fuori etichetta. Il che non implica ovviamente che quei residui fossero pericolosi per la salute. Bene comunque segnalarli, poiché le regole ci sono e vanno comunque rispettate.

 

Dal momento poi che i rischi per la salute sono da stimare in funzione di un'assunzione cronica, va da sé che uno sforamento minimo e sporadico delle soglie di sicurezza non scalfisce la sostanziale sicurezza complessiva dell'ortofrutta statunitense. 


I movimenti che diffondono allarmismo sui residui negli alimenti contestano però le conclusioni suggerite dalla tossicologia più elementare, cioè quella che stabilisce se vi siano rischi o meno comparando le dosi rinvenute nei cibi (livello di esposizione) con le soglie note di potenziale effetto. E la conclusione degli esperti, come visto, è che di rischi non ve ne sono.

 

Ovviamente, nei documenti ufficiali non la si può mettere così, poiché deontologia scientifica impone di usare espressioni tipo "rischi non significativi", oppure "non vi sono rischi inaccettabili per la salute umana". Ovviamente, su quel "significativi" e su quell'"inaccettabili" vengono costruiti i castelli di coloro che forse vorrebbero l'umanità tornare nelle grotte mangiando radici selvatiche a residuo zero. E quindi si torna al succitato Ewg.


Lo zero non esiste

Da decenni le compagini pseudo-ecologiste spargono paura tramite reiterate gogne mediatiche a danno di alimenti spacciati per veleni quando veleni non sono affatto. Queste compagini compongono talvolta liste di proscrizione, bollate appunto come "sporca dozzina", come avvenuto in America da parte dell'Environmental Working Group. Un modo per indirizzare le scelte dei consumatori infarcendo le pagine del proprio sito di "testimonianze" che talvolta sono più che altro dei messaggi promozionali a favore del biologico, spacciati per autorevoli pareri scientifici. 


Per quanto bassi siano i residui e per quanto questi stiano lontani anni luce dal rappresentare un rischio misurabile per i consumatori, tali associazioni insistono col millantare la soglia zero come obiettivo da raggiungere. Una soglia che non solo è irraggiungibile nei fatti, ma è anche fuorviante nel messaggio stesso. Dal punto di vista dei rischi siamo infatti già a livelli che tendono asintoticamente a zero. Scendere ulteriormente al di sotto di questi non apporterebbe cioè miglioramenti significativi alla già ottima condizione attuale. 


Purtroppo, tali campagne mediatiche hanno già spinto diverse filiere a inseguire la pericolosa trappola del residuo zero, illudendosi di trarne vantaggi commerciali. Per lo meno nel breve periodo. Un tema già affrontato in passato e che si consiglia di rispolverare oggi, prima di addentrarsi ulteriormente in un vicolo cieco al fondo del quale ad aspettare l'agricoltura c'è il classico muro


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