L'anno 2022 verrà ricordato in Italia come uno dei più impattanti del secolo per quanto riguarda la siccità. Il 2023, se il meteo non garantirà una primavera piovosa, promette di fare ancor peggio, vista la penuria di precipitazioni nevose in alta quota. Quelle che alimentano i laghi e i fiumi in estate, quando serve l'acqua da irrigazione


Si dice però che chi vive sperando non muore in modo particolarmente gradevole. Quindi, al fianco delle lecite speranze, è certamente venuto il momento di guardare con molta attenzione alle opportunità che la genetica già oggi offre per aumentare la resilienza delle colture alla siccità. 


A dispetto degli ostruzionismi europei alle biotecnologie, alcune genetiche DT (Drought Tolerant, tolleranti alla siccità) sono già coltivate in aree al cui confronto l'Italia è una valle dell'Eden quanto a disponibilità idrica. L'Africa, a conferma, va quindi guardata con interesse, poiché è là che operano le avanguardie antisiccità. 


In tal senso si possono trovare testimonianze preziose il un documento prodotto dalla Cgiar, acronimo di Research Program for Climate Change, Agriculture and Food Security. Trattasi di un network operante in 89 Paesi e forte di oltre 770mila germoplasmi prodotti dagli oltre 9mila ricercatori che collaborano al progetto a livello globale. 


Le potenzialità delle nuove genetiche DT, come pure di diverse pratiche agronomiche virtuose, emergono in diversi passaggi già dal report 2015 dal titolo "Is Climate Smart Agriculture Effective? A review of selected cases".


Scarica il pdf del report di Cgiar


Tre gli obiettivi cardine: il primo è quello di aumentare in modo sostenibile la produttività agricola, al fine di sostenere aumenti equi dei redditi agricoli a tutto vantaggio della sicurezza alimentare e dello sviluppo economico locale. Il secondo è quello di permettere all'agricoltura di adattarsi ai cambiamenti climatici grazie a una maggiore resilienza multilivello, dall'azienda agricola al nazionale. Il terzo è quello di ridurre le emissioni di gas serra.


Il ruolo delle biotecnologie

 

L'adattamento delle colture ai climi siccitosi ha da tempo confermato la capacità di garantire rese molto maggiori rispetto alle genetiche convenzionali precedenti. In Africa, per esempio, i mais tolleranti alla siccità (DT) hanno preso progressivamente piede e oggi se ne contano oltre 100 ibridi diversi, sviluppati e distribuiti in 13 differenti Paesi del Continente Nero. 


Tali ibridi hanno portato agli agricoltori un aumento delle rese tra il 20 e il 30% a fronte di condizioni di moderata siccità. Ovviamente, nel caso di aree in cui non piova da anni è inutile ingegnarsi in tal senso. Al contrario, tali ibridi indicano come sia possibile divenire resilienti a condizioni di carenze idriche "moderate", cioè quelle che hanno caratterizzato l'Italia nel 2022 e che promettono di divenire sempre più frequenti negli anni a venire. 


Del resto, le proiezioni per l'Africa indicano che circa il 90% dell'attuale area coltivata a mais a subirà impatti negativi, con riduzioni dal 12 al 40% delle rese entro la fine del secolo in corso. Ciò, ovviamente, in assenza di azioni di adattamento, come per esempio lo sviluppo di genetiche migliorate, sostenute da tecniche agronomiche e irrigue più efficienti. 


Il caso Zimbabwe

 

Alcune ricerche successive al report summenzionato hanno confermato le potenzialità dei nuovi mais DT quando seminati in particolari aree rurali dello Zimbabwe(1).

 

Anche in questo Paese africano la siccità rappresenta un enorme fattore limitante nella produzione di mais. L'adozione di ibridi DT ha permesso di elaborare una statistica comparativa in loco, intervistando gli agricoltori che avevano seminato mais DT o meno. 

 

Dall'indagine è emerso come la resa dei mais non-DT sia stata di soli 436,5 kg/ha, contro i 680,5 kg/ha degli ibridi DT (+56%). In termini economici ciò si traduce in redditi extra pari a +240 dollari/ha. Espresso in altri termini, ciò equivale a nove mesi di disponibilità di cibo in più, senza costi aggiuntivi. Non male per un Paese che quanto a Pil pro capite non arriva a 1.800 dollari annui. 

 

Servono ibridi specifici per gli ambienti italiani


Va da sé che le rese sopra espresse fanno sorridere a confronto con quelle ottenibili nel Lodigiano o nel Cremonese. Resta il fatto che a fronte di un dimezzamento delle superfici a mais nel volgere di 15 anni circa, nessuna opportunità andrebbe scartata, soprattutto considerando che la ritirata del mais in termini di superficie ha fatto abbandonare soprattutto le aree ove irrigare fosse più difficile. Troppo rischioso infatti continuare a coltivare granturco se si perdono rese in ragione di doppie cifre percentuali, o addirittura si vede morire il mais in campo ad agosto un anno sì e uno no. 


Fatto quindi salvo che in una zona irrigua del Nord Italia il problema siccità si pone nel presente in misura relativa, non si può non considerare l'opportunità di sviluppare ibridi capaci di esprimere rese di livello "padano" anche quando tenute a stecchetto per l'acqua.

 

Forse il problema siccità diverrà insostenibile solo fra molti anni, anche in Pianura Padana. Ma proprio in tali casi vale oro il detto "chi ha tempo non aspetti tempo". Magari facendo accettare le colture geneticamente modificate a chi fino a oggi ne ha impedito l'adozione tramite un battage mediatico basato solo su paure immotivate e storytelling fantasiosi

 


1) Rodney W. Lunduka et al (2017): "Impact of adoption of drought-tolerant maize varieties on total maize production in south Eastern Zimbabwe". Climate and Development, Volume 11, 2019 - Issue 1