Il biodiesel è un biocarburante il cui proceso produttivo ha un nome altisonante, “transesterificazione dei trigliceridi”, ma risulta relativamente semplice da implementare, anche a scala artigianale. I trigliceridi costituiscono oltre il 99% degli oli vegetali e dei grassi animali freschi.
In pratica, l’autore di questo articolo, per diversi anni, fece funzionare un veicolo con motore diesel utilizzando biodiesel prodotto “fai da te” nel proprio garage mediante un reattore costruito appositamente, di cui si vede il prototipo in foto 

Allora perché il biodiesel non è diffuso come il gasolio? Il collo di bottiglia che ha sempre frenato la sostituzione di quest’ultimo con il biodiesel è la disponibilità di oli e grassi vergini (contenenti almeno il 98% di trigliceridi).
Nonostante sia tecnicamente possibile (ed ecologicamente auspicabile!) utilizzare grassi ed ol' di scarto per la produzione di biodiesel, le proporzioni variabili di trigliceridi e acidi grassi liberi di cui sono composti gli oli fritti e I grassi rancidi, rendono il processo di produzione più complesso e costoso (diventa necessaria una pre-esterificazione seguita da  transesterificazione).

La maggiore complessità comporta dunque minore convenienza economica, anche se sarebbe molto più sostenibile un sistema produttivo basato sul recupero di oli da frittura e grassi da scarto rispetto a quello del biodiesel da oli vergini. Altro fattore che mette in questione la sostenibilità del biodiesel da oli vegetali è il fatto che la produzione di olio vergine comporta l’utilizzo di grandi estensioni di terra, spesso gestite in modo selvaggio. In altri termini, grazie alle denuncie di Greenpeace tutti sanno che l’Indonesia sta distruggendo vaste estensioni di foresta pluviale per piantare palma da olio, minacciando in questo modo la biodiversità e l’intero bilancio del ciclo del carbonio a scala planetaria.




Un orango ferito durante le attività di disboscamento in Indonesia viene soccorso da volontari 
(Fonte foto: Greenpeace)
 
Pochi sospettano però che la soia possa avere degli effetti altrettanto devastanti sull’ecosistema, in quanto si è abituati a considerarla una coltivazione “tradizionale”, ed in genere non comporta, almeno in apparenza, impatti così visibili come il disboscamento necessario per la coltivazione della palma da olio.
L’invisibilità dell’impatto non implica però la sua inesistenza. In Argentina, ad esempio, la crescente domanda di olio di soia dagli Usa innescata dalla politica del presidente Bush di “indipendenza energetica” dai paesi potenzialmente ostili, mantenuta comunque dal suo successore Obama, ha portato alla corsa all’”oro verde”. I

l metodo di coltivazione imposto dalle lobby dei semi Ogm e dall’industria agrochimica, è semplice ed apparentemente molto efficace: la terra viene trattata prima con dei diserbanti e poi seminata con della soia Ogm, capace di resistere al diserbante, e poi concimata con fertilizzanti chimici, in quanto in Argentina non esistono impianti di biogas dai quali procurarsi i digestati, nè stalle dalle quali ricavare il letame. Tutto questo cocktail  di agrochimici va a finire per forza nei corsi d’acqua ogni volta che piove, e dalle acque passa alla catena trofica.

Agli inizi del 2012 la stampa argentina venne sconvolta dalla cattura di una tararira (Hoplias malabaricus) pesce predatore particolarmente vorace ed aggressivo, dalle dimensioni di un luccio o salmone, molto apprezzato dai pescatori sportivi sudamericani. Il fatto sconvolgente è che il pesce pescato… aveva tre occhi! (Foto 3). A poche settimane di distanza da quella scoperta nello stesso lago fu pescato un secondo esemplare con la stessa straordinaria caratteristica!


Tararira con tre occhi (Fonte foto: La Gaceta)

Il lago dove si originarono simili anomale creature è artificiale e funzionale allo scarico di acqua di refrigerazione del circuito secondario di una centrale nucleare (condizioni ottime per la tararira, che predilige acque tiepide con basso tenore di ossigeno).
Il fatto porta inevitabilmente alla mente il popolare episodio della serie I Simpson, nel quale appare un pesce con tre occhi nel lago adiacente la sgangherata centrale nucleare di Springfield. La satira della stampa nei confronti della vecchia centrale nucleare di Embalse fu dunque immediata e l’opinione pubblica reagì negativamente attaccando il settore nucleare e chiedendo il fermo dell’impianto.

A distanza di due anni, anche se gli studi furono interrotti perché i pesci mutanti finirono col andare in putrefazione prima che le autorità locali decidessero il da fare, possiamo dedurre che, almeno per questa volta, il nucleare non sembra essere la causa delle malformazioni genetiche.  È vero che il lago di Rio Tercero, scenario delle mutazioni genetiche descritte, ricevette in passato dalla centrale nucleare di Embalse degli scarichi accidentali di acqua pesante.
Anche se questo episodio risale al 2005, non possiamo comunque  scartare completamente l’ipotesi di effetto mutagenico da parte di sostanze radioattive nell’acqua. Nonostante, secondo il prof. Daniel Garcia, biologo e ricercatore argentino, la causa della mutazione potrebbe derivare dai pesticidi e diserbanti presenti nel lago. Sapendo che la zona in questione è uno dei centri di monocoltivazioni intensive di soia e arachidi (anche questi utilizzati per produrre biodiesel), questa ipotesi appare come quella più plausibile. La tararira si trova infatti in cima alla piramide trofica e pertanto accumula nei suoi tessuti elevati livelli di sostanze potenzialmente teratogeniche (cioè, capaci di indurre mutazioni genetiche, appunto come gli erbicidi).

Il biodiesel è certamente un carburante rinnovabile, ma rinnovabile non vuol dire necessariamente sostenibile.