Battagliera e determinata, come sempre. Con un attacco ben preciso al governo: “Come Assica abbiamo chiesto a Palazzo Chigi, sei mesi fa, che istituisse un tavolo di crisi sulla vescicolare e le altre malattie che ci impediscono di esportare in Paesi strategici per la filiera, ma il governo non ci ha neanche ascoltato”.
Non è stata per niente tenera Lisa Ferrarini, ieri all’inaugurazione della 52ª Rassegna suinicola internazionale di Reggio Emilia, nella duplice veste di presidente di Fiere di Reggio Emilia e di Assica, l’associazione di Confindustria che rappresenta le imprese delle carni suine (dal macello alla trasformazione).

Le abbiamo rivolto qualche domanda su un settore che sta continuando a perdere redditività. Eppure, secondo le ricerche scientifiche rilanciate durante il convegno organizzato da Emilia Romagna ed Assica, negli ultimi anni carne suina e salumi hanno fatto passi avanti per qualità, sicurezza e aspetti nutrizionali.

Rimangono appunto alcuni ceppi apparentemente ancorati al suolo.
“Il mancato accreditamento del Paese come indenne da patologie quali vescicolare, Aujieszky e peste suina africana – alza la voce Ferrarinici fa perdere minimo 250-300 milioni di euro nelle esportazioni, su oltre un miliardo di oggi. Dobbiamo riuscire a penetrare nei mercati più popolati e con un trend positivo del Pil. C’è un dato che è ancora più chiaro: la Danimarca esporta a valore 1 miliardo di sottoprodotti della macellazione, vale a dire il quinto quarto. L’Italia l’anno scorso si è fermata a 52 milioni. Non dico che anche l’Italia debba esportare un miliardo di cascami della macellazione, ma arrivare a 300-400 milioni, sì”.

Quando diciamo vescicolare e altre patologie, parliamo di patologie confinate in Sardegna e pochissime zone del Sud Italia.
“E non riescono a debellarla. Eravamo contenti perché la Calabria da due anni era fuori dalla vescicolare. L’altro giorno è partito un altro focolaio”.

Non conviene cercare di ottenere l’accreditamento per distretti o aree produttive delimitate?
“Si sta parlando di macroregione. Per gli Stati Uniti il progetto è in fase avanzata e dovremmo nel giro di 6-8 mesi essere accreditati per l’esportazione dei prodotti con una stagionatura al di sotto dei quattro mesi di stagionatura. Sarebbe il massimo affiancare ai 550mila prosciutti di Parma e ai 50mila di San Daniele, coi quali andiamo già oggi, affiancare altri prodotti della salumeria italiana. La possibilità di ampliare l’offerta delle referenze ci garantirebbe maggiore potere contrattuale. Spero di centrare l’obiettivo. La settimana scorsa ero in Ue e abbiamo chiesto l’apertura del mercato giapponese per la bresaola”.

Il vino italiano, si è visto all’ultimo Vinitaly, punta molto sulla Cina.
“Anch’io ci punterei, ma c’è sempre il solito annoso problema che si ripresenta”.

Cosa servirebbe, oltre a questo, per sostenere le esportazioni?
“Serve una forte coesione, anche a livello politico e governativo, con la coesione del ministero dello Sviluppo economico, del ministero degli Affari esteri sul piano anche diplomatico, ma col supporto anche della Sanità”.