Il ciclo del carbonio è tutto sommato semplice. Le piante lo catturano in forma di CO2 dall’aria e lo trasformano in carboidrati grazie al processo fotosintetico. Poi, il suo destino è segnato: o viene inglobato nel suolo insieme ai residui colturali, oppure viene raccolto come semi o frutti per essere avviato al consumo umano o animale. In entrambi i casi, una quota importante del carbonio ritornerà prima o poi in atmosfera, grazie ai processi di respirazione aerobica dei microrganismi e degli organismi superiori. Anche i batteri anaerobici possono però reimmettere carbonio in atmosfera, sotto forma di metano. Un gas serra ritenuto anche più impattante della CO2 stessa.
 
L’Uomo può però influire su questo processo, aumentando la quota di carbonio organico nel suolo, come pure facendo si che la sua permanenza nel terreno sia la più lunga possibile. Per lo meno, in termini ambientali.
 
Considerando che il carbonio costituisce una percentuale di circa il 60% della sostanza organica presente nel terreno e il 27% della molecola di anidride carbonica, significa che dall’ossidazione di un solo chilo di sostanza organica del terreno si possono generare oltre 2,2 kg di CO2. E questi finiscono diretti in atmosfera.
 
Se però si riesce a lavorare in direzione opposta, significa che aumentare di un solo chilo la sostanza organica dei primi 30 centimetri del terreno si possono asportare oltre due chili di CO2 dall’aria. Ciò implica che l’aumento di un solo punto percentuale di sostanza organica nel suolo rende possibile immobilizzarvi diverse tonnellate di anidride carbonica, in numero variabile ovviamente in funzione del peso specifico dei diversi terreni.
 
La produzione e l’uso di fertilizzanti organici, cioè, aiuta non solo le colture e il terreno, ma esplica anche un ruolo importante dal punto di vista dei contenuti di gas serra in atmosfera. Invertire cioè il fenomeno di progressiva riduzione dei tenori di sostanza organica nei suoli agrari potrebbe rivelarsi strategico anche in ottica Global Warming.