Ogni anno, soprattutto alla ripresa della campagna agraria, le aziende agricole e le associazioni di categoria lanciano l'allarme: nei campi mancano braccianti e operai specializzati.
Non si trovano persone per raccogliere la frutta in Emilia Romagna, scarseggiano potatori esperti per gli olivi e gli altri alberi da frutto. Nelle serre non si trova personale per la raccolta degli ortaggi. Mentre nelle stalle ormai non bastano più neppure gli indiani per gestire le vacche da latte.
Secondo Cia - Agricoltori Italiani all'appello potrebbero mancare tra 90 e 110mila addetti, senza i quali la raccolta stagionale è a forte rischio. E accanto ai dati forniti dalle associazioni non mancano gli appelli di singoli imprenditori, come il noto Al Bano Carrisi, che in Puglia gestisce una azienda agricola e lamenta la carenza di manodopera, puntando il dito contro il reddito di cittadinanza.
Ma quali sono i motivi di questa cronica mancanza di lavoratori? Perché l'agricoltura è un settore sempre meno attrattivo per gli italiani e anche per gli stranieri? C'entra il reddito di cittadinanza? Per fare il punto abbiamo intervistato Gabriele Canali, professore di Economia Agraria presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Piacenza.
Professore, perché mancano lavoratori nel settore agricolo?
"Il settore primario ha una serie di peculiarità che lo rendono poco attrattivo tra i lavoratori di nazionalità italiana, ma anche tra gli stranieri. Da un lato alcuni lavori sono pesanti sul piano fisico. Ma non è solo questo. Molto dipende anche dai tempi e dalle forme organizzative. Raccogliere ortaggi nelle serre oppure lavorare nelle stalle tutto il giorno, senza sabato e domenica, è un fattore che allontana molti lavoratori. Inoltre molti lavori sono stagionali e non assicurano una stabilità di impiego nel corso dell'anno".
Sono solo gli italiani o anche gli stranieri a preferire altre occupazioni?
"È noto che la maggior parte degli italiani che cerca lavoro preferisce altri impieghi rispetto al lavoro in agricoltura, ma questa tendenza è assodata anche in altri Paesi. Tuttavia, sempre di più anche gli stranieri, mano a mano che si inseriscono nel nostro tessuto economico e sociale, cercano impieghi meno faticosi e più remunerativi".
Quali sono gli altri fattori che disincentivano il lavoro in agricoltura?
"Sicuramente c'è il tema dei salari, relativamente bassi, che soffrono la concorrenza di altri settori, meglio retribuiti, ma anche del reddito di cittadinanza".
Già, il reddito di cittadinanza. Secondo molti è questo il vero male che tiene a casa "sul divano" tanti italiani, giovani e non. È così?
"Bisogna analizzare questo fenomeno con mente lucida e senza ideologismi. Su un piatto della bilancia mettiamo la possibilità di avere un piccolo reddito senza lavorare e senza nessun effettivo controllo sulla accettazione o meno delle proposte lavorative, come la legge prevede, per di più con la possibilità di fare qualche lavoretto in nero. Sull'altro piatto mettiamo un lavoro con una remunerazione un poco più elevata ma che richiede fatica e orari di lavoro impegnativi. Si capisce come molti preferiscano il primo al secondo. Le norme senza controlli effettivi rischiano di generare effetti contrari a quelli sperati, e in Italia dovremmo saperlo bene, ormai".
Alcune aziende agricole, ma anche contoterzisti e concessionari, lamentano di non trovare figure professionali adeguate pur mettendo sul piatto una remunerazione elevata. Come mai?
"Il disallineamento tra domanda e offerta nel mercato del lavoro è sicuramente un tema centrale. Oggi mancano operatori specializzati di varia natura: potatori esperti, assistenti di stalla, operatori di macchine specializzate e altro ancora. Questo perché il mondo della formazione è disallineato rispetto a quello produttivo. Anche in agricoltura, come in altri settori. Pure le imprese faticano ad organizzarsi per partecipare alla programmazione di percorsi formativi mirati alle esigenze aziendali; il rischio è di accorgersi che le professionalità mancano quando non c'è più il tempo per prepararle e per attrarre giovani verso questi percorsi".
Come se ne esce?
"Serve che le associazioni di categoria, i sindacati, le regioni e gli enti territoriali lavorino assieme per individuare le figure che servono al mercato del lavoro e promuovere corsi di formazione per chi il lavoro lo sta cercando. Con lungimiranza: bisogna saper prevenire i bisogni futuri per agire con efficacia sulla formazione".
Aumentare semplicemente i salari potrebbe essere una soluzione per attirare nuovi lavoratori?
"La leva economica è sicuramente importante, anche se poi bisogna fare i conti con la sostenibilità dell'azienda agricola. Tuttavia un altro aspetto spesso poco considerato è l'organizzazione del lavoro".
Ci può spiegare meglio?
"Spesso il lavoro in agricoltura è discontinuo. Si lavora qualche settimana o pochi mesi, anche con tempi molto impegnativi, e poi bisogna cercare altri impieghi, magari in altri settori. Certamente questa poca stabilità disincentiva tanti dall'entrare nel settore. Se è vero che l'azienda agricola non può assumere tutto l'anno un operaio, sarebbe il caso di pensare dei contratti stabili nel tempo, anche se solo per alcuni mesi l'anno".
C'è anche un tema di organizzazione all'interno dell'azienda?
"Certamente, il lavoro agricolo si concentra spesso in un lasso di tempo breve ma intenso. Nella raccolta degli ortaggi ad esempio si lavora tutti i giorni, ma per poche settimane all'anno. Il caso opposto è quello delle stalle da latte, dove le mucche devono essere munte tutti i giorni, anche la domenica o il giorno di Natale. Trovare metodi di organizzazione interna più sostenibili, con servizi di sostituzione e sfruttando anche le moderne tecnologie, permetterebbe di coniugare meglio la vita privata del lavoratore con il lavoro stesso".
Gli stranieri sono stati uno dei capisaldi del lavoro in agricoltura, disposti ad accettare anche i lavori più umili. Tuttavia alcune aziende affermano di non riuscire a trovare neppure questo genere di manodopera. Come mai?
"Molte aziende agricole dipendono oggi dal lavoro straniero proveniente sia dall'interno dell'Unione Europea sia dal di fuori. Soprattutto quello intracomunitario sconta un miglioramento delle condizioni di vita nei Paesi dell'Europa dell'Est, storico serbatoio di manodopera, che porta molti lavoratori a preferire un impiego in patria. La pandemia ha poi dimostrato quanto sia fragile il nostro sistema di approvvigionamento di manodopera".
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E per quanto riguarda i lavoratori extracomunitari?
"Molte aziende agricole hanno rapporti stabili con lavoratori che vengono in Italia per pochi mesi l'anno. Ma bisognerebbe pianificare i flussi di lavoratori in maniera lungimirante, sentendo da un lato le esigenze delle imprese e dall'altro stabilendo dei meccanismi di ingresso regolari e stabili. L'agricoltura non si fa senza lavoratori, e i lavoratori sono un elemento decisivo della competitività delle aziende e dei territori. È necessario un approccio strutturale e lungimirante a questo tema".