Se da un lato si cerca di selezionare piante sempre più tolleranti e fungicidi sempre più potenti, c'è anche chi punta a inibire la produzione delle micotossine da parte del fungo. Una ricerca in questo senso è stata condotta dal professor Quirico Migheli, docente di patologia vegetale all'Università di Sassari, e dalla dottoressa Giovanna Delogu, dell'Istituto di chimica biomolecolare del Cnr di Sassari.
Dottoressa Delogu, quali armi contro il fusarium della spiga state sviluppando a Sassari?
“L'idea su cui stiamo lavorando è quella di non sopprimere il fungo, ma la sua fase micotossigenica, cioè la produzione di micotossine”.
Ci può spiegare meglio?
“Oggi per combattere il fusarium si utilizzano dei fungicidi che hanno come obiettivo quello di eliminare il fungo in modo che non possa produrre micotossine, quei composti tossici che poi contaminano le derrate. Il nostro approccio mira invece a bloccare nel fungo la produzione delle tossine stesse, lasciando in vita il microrganismo”.
Come avviene questa inibizione?
“Le micotossine vengono prodotte da una proteina, la tricodiene sintetasi. Per individuare quelle molecole che inibiscono la sua attività micotossigenica abbiamo trasformato questa proteina in un modello informatico che abbiamo fatto poi interagire con centinaia di composti fenolici. Abbiamo così identificato diverse molecole che inibiscono la produzione di micotossine”.
Perché è stato necessario la costruzione di questo modello informatico?
“Con la creazione di un modello informatico noi possiamo fare interagire virtualmente migliaia di composti chimici alla ricerca di quelli che meglio inibiscono la produzione di micotossine. Il tutto senza fare prove in campo che richiedono tempo, denaro e inquinano”.
Niente prove in campo dunque?
“Le prove in campo sono fondamentali, ma solo in una fase successiva, quando tra migliaia di composti se ne sono individuati alcuni che rispondono alle caratteristiche desiderate”.
Quali sono stati i risultati delle prove in campo?
“Siamo ancora in una fase preliminare dello studio e dati definitivi non ce ne sono. Quello che posso dire è che in vitro riusciamo ad avere una inibizione del 100%, mentre in serra e in campo le percentuali scendono. Il punto è che per avere un risultato ottimale le molecole devono entrare nel sistema linfatico della pianta”.
Perché un agricoltore dovrebbe scegliere queste soluzioni, quando saranno in commercio, piuttosto che un fungicida tradizionale?
“Prima di tutto perché è un approccio green. Non vi è infatti l'utilizzo di prodotti chimici di sintesi. Non c'è inquinamento del suolo né residui sulle derrate. E in secondo luogo si evita il problema della resistenza. Non uccidendo i funghi non si selezionano organismi resistenti e dunque il prodotto è efficace sempre allo stesso modo”.
I fenoli che avete individuato sono economicamente competitivi rispetto ad agrofarmaci tradizionali?
“Assolutamente sì. Alcuni sono dei composti che si trovano nei chiodi di garofano, nel basilico e nello zenzero. Hanno un costo assolutamente abbordabile, soprattutto per una azienda agricola che fa biologico e che quindi può spuntare prezzi di mercato superiori”.