I problemi ambientali sono anche (e molto spesso) problemi agricoli. Questo e tanto altro è emerso dall’enorme mèsse di incontri, vertici, forum e workshop che si sono tenuti in questi giorni a Bologna in occasione del G7 ambiente. Più o meno come si era visto a Taormina gli Stati Uniti sono apparsi isolati e quindi si è pervenuti a una dichiarazione finale 6+1, in cui in una postilla gli Usa ribadiscono di non voler attuare gli accordi di Parigi sul cambiamento climatico. Accordi che per gli altri sei firmatari non sono ri-negoziabili. 

Il cambiamento climatico appare però dall'evidenza scientifica come inconfutabile. Anche senza ricorrere ai big data dei grandi istituti di meteorologia anche noi profani qualche cosa lo abbiamo intuito. Dal punto di vista agricolo - o meglio botanico - i mutamenti osservati nelle ultime decine di anni sono spesso molto evidenti. Si pensi per esempio al progressivo spostamento verso il Nord del continente europeo di certe colture arboree (come il melo), alla coltivazione di specie tropicali (come per il mango, il litchi o l’avocado) in Sicilia o in Andalusia, alla continua e netta crescita della produzione orticola in Germania o in Polonia. O ancora alla nuova diffusione della vitivinicoltura nelle regioni del Sud Est dell’Inghilterra e in Cornovaglia: un ritorno dopo circa sette secoli.

Fra i tanti incontri fatti nella kermesse bolognese anche quello con alcuni economisti che stimano il valore futuro di terreni, che oggi si possono acquistare a prezzi stracciati, ma un domani quantomeno prossimo, per effetto del cambiamento climatico, saranno ottimi per una produzione vitivinicola di alto livello

Certo che i mutamenti climatici - ci raccontano meteorologi e storici - ci sono sempre stati. Oggi però in un mondo assai più popolato e meno resiliente le conseguenze possono essere da tregenda. I cambiamenti climatici in situazioni di debolezza economica e politica come quelle che caratterizzano l’Africa portano a veri e propri drammi. Possiamo ricordare a tal proposito la diffusione della ruggine nera del grano in Uganda nel 1999 o ancora le primavere arabe nel 2010/2011 - innescate da un drammatico aumento del prezzo del pane dovuto agli scarsi raccolti in Nord Africa e Medio Oriente.

Pochi sanno che molti dei profughi che arrivano sulle nostre coste sono l’effetto della crisi del prezzo del cacao - che è una coltura ai primi stadi di domesticazione, suscettibile agli attacchi dei patogeni vegetali e piuttosto delicata. I piccoli coltivatori non riescono oggi a trarre abbastanza guadagno e quindi passano ad altre colture o emigrano verso le città e poi, magari, verso un altro continente.

Gli analisti delle multinazionali del cibo prevedono una diminuzione di un milione di tonnellate della offerta globale di cacao da qui al 2020. Le conseguenze saranno però ben più gravi e drammatiche rispetto all’aumento del prezzo della barretta di cioccolato che ci compriamo per la merenda.