Il problema, semmai, è trovare la strada giusta e stabilire, senza ideologie e populismi, l'ordine di priorità delle due funzioni.
A noi sembra logico, sulla base del buon senso e dell'evidenza empirica, che la vera priorità - non fosse altro perché funzione esclusiva del settore primario - sia quella relativa alla sostenibilità economica dell'attività produttiva vera e propria, che deve garantire una quantità sufficiente di cibo, di buona qualità organolettica e sicuro sotto l'aspetto della salute.
In parallelo, non certo secondario, c'è il ruolo che l'agricoltore deve svolgere per la tutela del territorio e la salvaguardia dell'ambiente, preservando la fertilità del suolo e la qualità dell'acqua. Cioè quei beni comuni, che appartengono all'intera collettività.
Un ruolo, quello di guardiano del territorio, che gli agricoltori europei e italiani in particolare hanno assunto con molto impegno: lo testimoniano il primato del biologico, lo sviluppo della produzione integrata con meno chimica, i sistemi produttivi legati alle filiere Dop, gli investimenti sulle agroenergie.
Insomma, il ruolo multifunzionale di ambienticoltore i produttori agricoli italiani hanno imparato a svolgerlo da tempo, sia per la consapevolezza che gli deriva dall' esperienza sul campo - mantenere fertili i terreni oltre che un bene per la collettività, è una necessità anche per le sopravvivenza economica della propria azienda -, sia anche per gli incentivi che l'Unione europea (cioè la Pac) garantiscono per rendere questa attività sostenibile su entrambi i fronti.
La conferma arriva anche dall'utilizzo delle misure agroambientali finanziate da Bruxelles con i fondi dello Sviluppo rurale: nel 2012 la spesa per gli eco-incentivi ha assorbito circa un miliardo di euro, più o meno il budget impegnato per gli investimenti strutturali per potenziare le aziende.
Ma agli ambientalisti, tutto questo evidentemente non basta. Così, proprio mentre il negoziato sulla riforma Pac sta entrando nella sua fase cruciale, sono passati al contrattacco, chiedendo al Parlamento europeo di alzare l'asticella del cosiddetto "greening", imponendo una serie di vincoli agronomici (come la rotazione obbligatoria delle coltivazioni) e una percentuale di terreno da sottrarre alla coltivazione per trasformarle in aree ecologiche come muretti e siepi.
Una crociata promossa da centinaia di sigle ambientaliste e di organizzazioni non governative, di cui in Italia si è fatto portavoce Carlin Petrini, il guru di Slow-Food. Il pifferaio magico che, dopo aver incantato con i suoi presìdi di prodotti di nicchia consumatori radical-chic e convertito le annoiate signore bene alla moda del cibo povero, ha deciso di far valere la sua agri-filosofia anche sulla riforma Pac, scendendo in campo con la casacca del Robin Hood: togliere i soldi ai latifondisti, ricchi e distruttori di ambiente, per darli ai piccoli contadini, poveri e custodi dell'ambiente. E avanti tutta con il "greening" duro e puro, invece di quello "verde sbiadito". Questa volta il piffero non ha funzionato e il Parlamento ha confermato l'attuazione più flessibile degli ecoincentivi.
Perchè tanto attivismo sulla Pac?
Certo fa parte del suo credo agricolo, ma c'è anche chi dice che Carlin Petrini stia studiando da ministro dell'Agricoltura. Lo stesso Matteo Renzi, il rottamatore Pd, in una recente intervista televisiva ne ha tessuto le lodi, dopo un incontro all'Università delle Scienze gastronomiche di Pollenzo, altra prestigiosa creatura accademica del paron di Slow-food. Stessa cosa ha fatto Vittorio Sgarbi, ospite di Barbara D'Urso su Canale 5, caldeggiandone la nomina a ministro.
Il personaggio è importante e con la ricerca spasmodica di volti nuovi per riuscire a dare all'Italia un Governo, le voci che lo danno papabile all'Agricoltura potrebbero non essere pura fantasia. Presto, almeno così ci auguriamo, ne sapremo di più.
Di certo, nel mondo delle associazioni agricole - che pure non hanno mai mancato di correre alla sua corte e ossequiarlo - c'è già chi fa gli scongiuri. Una cosa sono i Saloni del gusto e le esposizioni mediatiche, un'altra gestire una Politica agricola comune con un'impronta ambientale che demonizza, scambiando per latifondo-industriale quel segmento di aziende agricole più strutturate che garantiscono una fetta importante della produzione agricola italiana. Tagliare le gambe a queste imprese sarebbe come segare il ramo su cui poggia la gracile produttività dell'agricoltura italiana che garantisce solo il 60-70% del fabbisogno nazionale di generi di prima necessità come cereali, latte e carne.
In un momento di grande crisi economica, con il carrello della spesa ridotto all'osso e sempre più famiglie in bilico sulla soglia della povertà, è veramente azzardato propugnare un modello che punta alla decrescita agricola. Mi torna in mente la famosa frase attribuita a Maria Antonietta, la regina di Francia che, rispondendo all'allarme dei sui ministri sulle proteste di piazza del popolo affamato, replicò "se non hanno il pane, mangino le brioche".