“Era l'inizio del 2010, quando, in Campania e altrove, Slow Food iniziò a ragionare sulla possibilità di costruire un evento internazionale sui legumi: tanto che Slow Food Campania inserì Leguminosa nel programma quadriennale. La proclamazione del 2016 come Anno internazionale dei legumi da parte della Fao è motivo per tutti noi di grande soddisfazione ed è la conferma che avevamo visto giusto nel puntare su questo alimento, che può far bene alla salute delle persone, alla tutela dell'ambiente e restituirci un'agricoltura a misura d'uomo”.

Così alcuni giorni fa Gaetano Pascale, presidente nazionale di Slow Food in una sua nota su Facebook.

AgroNotizie ha chiesto a Pascale, agronomo nato a Benevento e presidente nazionale di Slow Food, quale significato potrebbe avere il rilancio della coltivazione dei legumi per l’agricoltura italiana e, in particolare, meridionale.
Ne è venuta fuori una conversazione fitta su quella che potrebbe essere una nuova frontiera agricola e alimentare fondata sulla riscoperta dei legumi, puntando su rotazioni, cultivar autoctone e una revisione amichevole del greening della nuova Pac, che punti ad incentivare gli ecotipi locali.
E con una richiesta al ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina, lodato per il sostegno alla legge sulla biodiversità in agricoltura: blindare gli ecotipi locali, tenendoli così al riparo da un possibile brevetto da parte dell’industria.

Slow Food rivendica il 2016 Anno internazionale dei legumi proclamato dalla Fao come una propria vittoria, ma cosa avete fatto realmente?
"In realtà abbiamo avviato un ragionamento sulla salute delle persone e la tutela ambientale e un lavoro su un nuovo modello di agricoltura sin dal 2010, quando i legumi non erano ancora all’ordine del giorno e oggi il lancio da parte della Fao del 2016 come anno internazionale dei legumi ci gratifica, al di là dei meriti eventuali: l’importante è che vi è stata una decisione in tal senso. Un fatto che testimonia come una nuova frontiera alimentare e agricola deve nascere con i legumi".

Dalla Fao negli ultimi tempi è partito anche un altro input: sostituiamo la fettina di carne con gli insetti. Non sarebbe meglio a medio e lungo termine, specie al Sud, in Italia ed Europa puntare di più sui legumi, invece che sugli insetti?
"Intanto direi che sui legumi si può intervenire nel breve periodo, visto che i legumi hanno un ciclo produttivo annuale.
In teoria, con investimenti nelle politiche agricole dei singoli Stati dell’Unione Europea, ove venissero introdotte delle opportune correzioni e degli opportuni incentivi, i legumi potrebbero diventare da subito una nuova frontiera alimentare. Perché è possibile coltivarli in qualsiasi contesto, anche nelle aree più complesse, come le aree di montagna, le colline, i terreni più poveri. Qui vedo necessario l’intervento della politica. Sul fatto che ci possa essere una sostituzione delle proteine animali con quelle vegetali, io credo che sia nelle cose.
Credo anche, anche dal punto di vista del messaggio che ci consegna l’Oms, che si debba andare verso tutto ciò che consente la riduzione del consumo di carne. Secondo me il messaggio della 
Fao sugli insetti era solo un modo per cominciare a ragionare sulla riduzione dell’impatto degli allevamenti, un modo come un altro per dire ci sono delle risorse disponibili di proteine animali a basso costo e basso impatto ambientale a disposizione e che si può utilizzarle. Non metterei  l’introduzione delle proteine vegetali in sostituzione di quelle animali provenienti dagli insetti. E’ vero semmai che in alcuni Paesi gli insetti fanno già parte della tradizione e della dieta e non vedo per quale motivo non si possa insistere e continuare in quel percorso. E’ diverso lì dove gli insetti rappresentano un tabù alimentare. Non li vedrei come alternativi in quel caso".

Vuole dire che alle nostre latitudini si possa puntare ad una riduzione del consumo di carne facendo leva sui fagioli e non sulle cavallette, mi pare questo il senso, giusto?
"Ribadisco il concetto, si deve andare verso la riduzione del consumo di carne. Che questo avvenga attraverso l’introduzione dei legumi, come Slow Food non può che farci piacere. Ma questo fenomeno dovrebbe avvenire a prescindere, perché  abbiamo bisogno di legumi e basta. Per la nostra salute, per l’ambiente e per la nostra agricoltura".

Ecco, una nuova agricoltura più basata sui legumi. Poco fa faceva riferimento alla possibilità che la Pac nella revisione di medio termine possa apportare delle modifiche per incentivare la produzione di legumi. Recentemente si nota che la stessa industria della pasta, negli accordi di filiera con gli agricoltori, prevede nei disciplinari di coltivazione del grano duro la rotazione colturale con i legumi da granella, per dare più azoto al terreno e ridurre le concimazioni; un passo notevole. E sono casi che si verificano nel nostro Mezzogiorno.
Esistono quindi già forti incentivi di mercato verso la coltivazione dei legumi, tra Tavoliere delle Puglie, beneventano, Irpinia e Molise, si può fare di più?

"Quello che ha appena citato è un elemento, ma c’è di più. L’introduzione dei legumi negli ordinamenti produttivi riguarda anche la possibilità per le aziende agricole di diventare più padrone del proprio destino, ed è quel che fa la differenza. Perché finché dovranno rifornire l’industria guadagneranno sempre troppo poco.
I legumi consentono alle imprese agricole di diventare protagoniste con la prima lavorazione della granella, con l’essicazione, che può poi essere confezionata in azienda o struttura consortile e commercializzata, conservando tutto il valore aggiunto della produzione in capo agli agricoltori. Basta fare un piccolo investimento per confezionarli, qualche decina di migliaia di euro consente di far fare il salto di qualità anche ad una piccola impresa.
L’operazione ha senso se l’impresa agricola punta su ecotipi locali, che hanno un’identità e un radicamento territoriale forte. Come Slow Food chiediamo modifiche alle misure di greening per accompagnare questo processo. Già oggi il greening chiede alle aziende più grandi di diversificare gli ordinamenti produttivi, noi chiediamo di fare un passo in più: diversifichiamo introducendo ecotipi locali. Se la scelta colturale è quella di avere grano, legumi e ortaggi, noi chiediamo che sia incentivata la coltivazione di grano, legumi e ortaggi che recuperano ecotipi locali".


Un’operazione del genere sarebbe più facile sui legumi, oggi ancora poco coltivati per il consumo umano e sugli ortaggi, che hanno un mercato sulla linea del fresco molto forte e legata ad usi locali; forse meno sul grano, anche se esistono esempi positivi, come l’accordo di filiera in Alta Irpina sulla cultivar di frumento duro “Senatore Cappelli”.
Quali sono i modelli di successo per le imprese agricole che investono nell’ecotipo locale?

"Esatto, ci sono questi esempi ed è chiaro che l’industria di trasformazione nel caso del "Senatore Cappelli" è fuori dalla partita.
Mentre sui legumi abbiamo un modello agricolo forte, che è quello dei presìdi Slow Food: le aziende agricole che hanno investito sugli ecotipi locali sono ormai un punto di riferimento: dal fagiolo di Controne al cece di Cicerale nel Cilento, in Campania, giusto per restare al Sud, ma nel Lazio c’è la lenticchia di Rascino e in Toscana il fagiolo Zolfino.
Abbiamo esempi di aziende agricole che ricavano reddito da ecotipi locali di legumi su tutto il territorio nazionale, sono modelli sostenibili sul piano economico e ambientale perché tutti  basati su ordinamenti produttivi misti, basati sui legumi e sulle rotazioni. Poi su molti prodotti ormai c’è un interesso forte".


In sintesi: il sistema legumi, inteso come la nuova frontiera per l’agricoltura italiana è già oggi più di una speranza. Il seme è stato gettato, ma servono scelte politiche conseguenti. Cosa chiederebbe al ministro per le Politiche agricole Maurizio Martina se lo avesse di fronte ora?
"In via preliminare, qualcosa il Governo lo ha già fatto, sostenendo la legge sulla biodiversità in agricoltura che è in via di definitiva approvazione da parte del Parlamento.
E' un passo importante, perché quando si parla di biodiversità il riferimento ai legumi è forte perché le cultivar sono tantissime, molti sono ecotipi locali. A Martina chiederei di fare in modo che i semi esistenti, e quindi anche quelli dei legumi, non corrano mai il rischio di essere brevettati e restino sempre nella disponibilità degli agricoltori, che non diventino mai oggetto di marchi, ma rimangano sempre di pubblico dominio, attivando al tempo stesso la ricerca al fine di non perdere queste preziose risorse.
Sarebbe il completamento del buon lavoro già fatto con la legge sulla biodiversità in agricoltura".