Danielle Nierenberg, statunitense, 35 anni e un curriculum lungo così, grazie agli articoli scritti per i principali quotidiani degli Usa, ai suoi libri e al suo attivismo per un’agricoltura più verde e più equa. Solo un anno fa era, con l’economista Andrea Segré, al Festivaletteratura di Mantova, palcoscenico dedicato ai libri dove da alcuni anni anche l’ambiente, il clima e l’agricoltura sono riusciti a ritagliarsi uno spazio importante.
Sempre in giro per il mondo, Danielle Nierenberg è co-fondatrice, insieme a Ellen Gustafson del think-tank sull’alimentazione (www.foodtank.org).

L’autrice di libri di successo come Eating planet 2012 e Food and agriculture: the future of sustainability, dice chiaramente: “Gli agricoltori americani e dei paesi industrializzati hanno molto da imparare dall’agricoltura dei paesi in via di sviluppo, a partire dai cambiamenti climatici”.
AgroNotizie ha rivolto alcune domande a Danielle Nierenberg.

Secondo le previsioni della Fao, nel prossimo decennio si assisterà ad una crescita annuale media dell’1,5%, inferiore dunque al periodo 2003-2012. Di conseguenza, un più basso livello delle scorte dovrebbe essere una minaccia per i prezzi dei prodotti alimentari. Quali soluzioni suggerisce?
“Abbiamo bisogno di investire maggiormente verso quegli agro-ecosistemi in grado di alleviare la fame e la povertà. Soluzioni di natura agroforestale, attente alla consociazione, alla raccolta dell’acqua piovana, ai sovesci, alle colture perenni, alle verdure autoctone, possono portare a rendimenti più elevati rispetto alle colture convenzionali. Inoltre, più le pratiche di coltivazione sono sostenibili e rispettose dell’ambiente, più è facile che siano molto meno costose rispetto alle colture convenzionali, perché non si basano su fertilizzanti artificiali o su altri prodotti agrochimici. L’Organizzazione internazionale per la valutazione delle conoscenze agricole, della scienza e tecnologia per lo sviluppo afferma che non possiamo più seguire un approccio di business come abbiamo fatto finora, ma che sono necessari nuovi approcci più verdi, in grado di produrre alimenti che aiutano a migliorare la nutrizione, aumentare i redditi e proteggere l’ambiente”.

Negli ultimi due anni lei ha condotto ricerche in oltre 35 Paesi nell’Africa sub-sahariana, in Asia e in America Latina. Che idea si è fatta di quel mondo, sul piano dell’agricoltura?
“È stato un periodo molto intenso, durante il quale ho incontrato agricoltori, ricercatori, scienziati, politici e capi di governo, ma anche accademici e studenti, gruppi di giovani e attivisti, Ong e giornalisti. Ho raccolto i loro pensieri per contribuire ad alleviare la fame e la povertà e allo stesso tempo per proteggere l’ambiente. Ho cercato poi di raccontare quanto funziona in quei sistemi agricoli, dando spazio a quelle esperienze di successo e dando voce alla loro speranza”.

Quanto conosciamo, generalmente, di Africa, Asia, America Latina?
“Beh, insomma...La maggior parte delle persone tende a pensare al mondo in via di sviluppo, e in particolare all’Africa sub-sahariana come luoghi senza speranza, con la fame, la povertà estrema, malattie e conflitti. È vero, abbiamo visto tutte queste cose, ma abbiamo anche visto sorprendenti esempi di successo, innovazione, imprenditorialità, e un incredibile cambiamento, positivo e destinato a durare. Raccogliere le sfide della fame e della povertà e individuare nuove soluzioni sono problematiche affrontate quotidianamente e con estremo interesse, con argomentazioni elevate”.

Quali sono le posizioni di quei paesi?
“Innanzitutto, l’importanza di modificare i parametri di come si misura un sistema alimentare di successo e di come tali misurazioni dovrebbero essere. In secondo luogo, ho rilevato che è simile, fra paesi in via di sviluppo e paesi industrializzati, la crescente importanza delle attività agricole delle città in rapporto all’aumento dei prezzi alimentari e della fame nelle aree urbane. In terzo luogo, si parla dell’importanza di rendere l’agricoltura resistente ai cambiamenti climatici, alla crisi dei prezzi alimentari, all’aumento dei costi del carburante e alle calamità naturali. Inoltre, è sempre più dibattuto il problema dei rifiuti alimentari e delle perdite dopo la fase di raccolta”.

I paesi industrializzati stanno riscoprendo il ruolo di un’agricoltura più sostenibile, con un impatto positivo sul lavoro. Vale lo stesso per i paesi in via di sviluppo?
“L’agricoltura rimane ancora una risorsa. Si parla anche di questo e della vitale necessità di fare in modo che l’agricoltura e il sistema alimentare forniscano opportunità di impiego interessanti e sostenibili per i giovani del mondo. Sì, vale lo stesso, sia che ci si trovi in Malawi o in Italia”.

Come influirà il cambiamento climatico sull’agricoltura?
“L’agricoltura deve diventare più resistente. La siccità che ha colpito gli Stati Uniti lo scorso anno e che si sta verificando nuovamente in molte parti del Paese, ha mostrato come gli agricoltori statunitensi non siano preparati ai cambiamenti climatici. E mentre l’agricoltura è una delle principali responsabili del cambiamento climatico, contribuendo per circa il 25-30% alle emissioni globali di gas a effetto serra, allo stesso tempo l’agricoltura è anche l’attività umana più colpita dall’aumento delle temperature, dalle inondazioni, da eventi climatici estremi e altri impatti negativi legati al cambiamento climatico”.

Come si combattono i cambiamenti climatici, allora?
“Con la stessa agricoltura. A patto, però, che sia sostenibile. Solo a queste condizioni potrà essere una chiave importante per mitigare i cambiamenti climatici e migliorare la sicurezza alimentare nei paesi in via di sviluppo e in quelli industrializzati”.

Abbiamo visto che non è sempre facile…
“No. Ma in realtà, gli agricoltori negli Stati Uniti e in altri paesi ricchi possono avere molto da imparare dagli agricoltori che coltivano in altre parti del mondo sui modi per contribuire a mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, perché quei produttori hanno già trovato alcuni modi per affrontare gli effetti del cambiamento climatico per i prossimi decenni”.

Qualche esempio?
“La Fao stima che il settore agricolo, a livello globale, potrebbe potenzialmente ridurre e rimuovere tra l’80 e l’88% dell’anidride carbonica che attualmente emette. Adottando approcci più sostenibili, l’agricoltura su piccola scala nei paesi in via di sviluppo potrebbe contribuire a ridurre del 70% i cambiamenti climatici. Molte di queste innovazioni possono essere replicate e adattate anche su aziende di grandi dimensioni, contribuendo a migliorare la disponibilità di acqua, aumentare la biodiversità, migliorare la qualità del suolo. In che modo? Attraverso le alternative all’uso della chimica in agricoltura, evitando eccessive lavorazioni del terreno o favorendo la coesistenza di colture e bestiame sullo stesso terreno. Così si potrebbe ridurre drasticamente la quantità totale di energia utilizzata per la produzione di un vegetale o animale, abbattendo nel complesso le emissioni”.

Nei suoi libri e articoli punta molto l’attenzione sulle misure agroforestali.
“È vero. Si tratta di opportunità che portano molti benefici. È fondamentale integrare gli alberi con le colture, perché possono contribuire a mitigare i cambiamenti climatici, dal momento che gli alberi sequestrano l’anidride carbonica dall’atmosfera. Inoltre, la presenza degli alberi può aumentare la salute del suolo e permette di massimizzare la quantità di materia organica, dei microrganismi, e l’umidità nel suolo. Gli alberi possono anche fornire ombra per il bestiame e creano gli habitat per la fauna selvatica e per gli insetti”.

Il sovescio è uno dei suggerimenti da lei avanzati. Quali vantaggi assicura?
“Il sovescio consente di migliorare la fertilità del suolo e l’umidità del terreno, rendendolo meno vulnerabile alla siccità o al calore. Le colture di copertura possono anche essere un deterrente contro i parassiti e le malattie che colpiscono le colture o bestiame, come la diabrotica del mais”.

Utilizzo razionale delle risorse idriche e colture autoctone, par di capire.
“Sì, è così. Sono operazioni intuitive, eppure di grande impatto. Pensiamo, ad esempio, alle possibili innovazioni nella conservazione dell’acqua, tra cui la raccolta dell’acqua piovana e l’irrigazione a goccia, misure in grado di ridurre l’impatto dell’agricoltura sulle risorse idriche. Ma anche la messa a coltura di produzioni autoctone e tradizionali sono in grado di migliorare i redditi e la nutrizione, fornendo inoltre agli agricoltori una fonte di assicurazione contro la perdita del raccolto e la malattia. Utilizzando pratiche agricole più rispettose del clima, gli agricoltori possono continuare a fornire cibo per la popolazione mondiale, oltre a essere una fonte di sostentamento per quel miliardo e 300mila persone che dipendono dall’agricoltura per la loro sopravvivenza”.

Può l’agricoltura verticale essere un’opportunità per l’agricoltura locale o quella urbana?
“Il mio lavoro mi ha portato in zone prevalentemente rurali di tutto il mondo e durante quei viaggi ho anche potuto incontrare agricoltori urbani e imprenditori alimentari in città diverse come Nairobi, New York, Milano, Ho Chi Minh City e Ahmedabad, India. Lavorano, coltivano cibo sui tetti utilizzando acqua di scarico per irrigare e fertilizzare, creando reti di agricoltori urbani e vendendo cibo a ristoranti e mercati cittadini, ma tale sistema non ottiene l’attenzione di cui ha bisogno, per essere esteso su larga scala. Le popolazioni delle città stanno crescendo rapidamente, in particolare nell’Africa sub-sahariana. Abbiamo bisogno di trovare il modo di nutrire quei residenti, oltre a fornire loro opportunità economiche. Quindi sì, l’agricoltura urbana gioca un ruolo importante per liberare queste persone  dalla dipendenza del mercato globale”.

Si spende ancora molto per il cibo in alcuni Paesi?
“Sì. Restando nell’Africa sub-sahariana, ma il discorso vale per altre realtà, per molti abitanti delle città l’accesso ad un cibo sano di solito dipende dalla quantità di denaro che hanno. E gli acquisti di cibo sono in grado di assorbire l’80 per cento dei loro redditi. In aggiunta, i prezzi alimentari possono esplodere senza molto preavviso”.

Dal suo osservatorio, come inquadra il fenomeno?
“Posso dare alcuni dati. Nel 2050, l’80% della popolazione vivrà nelle città. Ora abbiamo più di 21 megalopoli nel mondo, 40 anni fa erano solo due. Nel 2025 saranno circa 37 le città con più di 10 milioni di persone”.

E per quanto riguarda l’agricoltura urbana?
“Nel mondo ci sono circa 800 milioni di contadini urbani, che producono il 15-20% del cibo del mondo. Duecento milioni di questi agricoltori producono cibo per i mercati e impiegano 150 milioni di persone. In Africa, in particolare, dove la fame e la povertà tendono ad essere più acute, è più veloce il ritmo di inurbamento rispetto al resto del mondo, con 14 milioni di persone che si spostano ogni anno verso le città; si tratta di un fenomeno migratorio che è secondo solo al massiccio spostamento che si sta verificando in Cina. Questo cambiamento è già in atto e la scommessa riguarderà le infrastrutture urbane, a partire dai servizi legati all’acqua potabile e di natura igienico-sanitaria. Quasi tre miliardi di persone al mondo non hanno i servizi igienici e devono fare i conti con malattie medievali come il colera, che in alcune città è in aumento”.

Insomma, par di capire che l’Africa non è così addormentata come a volte si pensa, giusto?
“Sì. Questo spirito innovativo è presente in Africa e se avete mai viaggiato in uno slum di Nairobi, Kampala o Accra, si capisce di cosa sto parlando. L’energia imprenditoriale è lì, nonostante il fatto che l’Africa abbia la più grande comunità che vive nelle baraccopoli (210 milioni di persone) e che nell’Africa sub-sahariana vi siano 200 milioni di residenti urbani che vivono con meno di 2 dollari al giorno. Ho visitato Kibera, che è il più grande slum dell’Africa sub-sahariana, con una popolazione compresa fra 700.000 e 1 milione di persone”.

Che cosa ha visto?
“Diverse migliaia di donne di Kibera si sono organizzate in gruppi di auto-aiuto. E molti di questi gruppi sono al lavoro per trovare il modo di produrre cibo e allevare animali nello slum. Una cosa innovativa che hanno fatto è sviluppare quello che chiamano giardini verticali, che con un modo innovativo di coltivazione alimentare utilizza i sacchi di riso e mais per la coltivazione di ortaggi, come cavoli o spinaci, in uno spazio molto compatto e su diversi livelli del sacco. Le donne vendono i loro prodotti ad altre persone nel loro quartiere e riescono anche consumare una parte di ciò che coltivano. Questi sacchi si sono rivelati una fonte molto importante di sicurezza alimentare durante i disordini che si sono verificati a Nairobi nel 2007 e nel 2008.
Un altro gruppo di agricoltori di Kibera è impegnata a fare un po’ di giardinaggio innovativo in un lotto vuoto nello slum. Gli agricoltori possono non solo coltivare cibo da mangiare e da vendere, ma forse, sorprendentemente, diventare una fonte di sementi per gli agricoltori rurali. Non ci sono molte aziende di semi locali in Africa orientale e gli agricoltori rurali spesso hanno difficoltà a trovare fonti di buona qualità del seme”.


Che risultati danno i letti di semina per sementi rurali?
“Sono redditizi. Uno dei contadini che ho incontrato a Kibera mi ha spiegato che i letti di semina l’hanno aiutato a pagare non solo la scuola ai suoi figli, ma gli ha consentito anche di risparmiare abbastanza soldi per acquistare il proprio pezzo di terreno al di fuori di Nairobi. Questo aiuta a sfatare il mito che l’agricoltura urbana alimenta solo i poveri e gli affamati in città, ma può anche essere una fonte importante di ingressi per gli agricoltori rurali”.