America first, l'America dei cattivoni che alzano (o minacciano di alzare) barriere commerciali per limitare le importazioni dagli altri paesi, si inseriscono in buona compagnia. Gli Stati Uniti non sono, infatti, l'unico paese che utilizza largamente le barriere protezionistiche.

Se in verità guidano la classifica per il numero di barriere applicate agli scambi commerciali con 1.084 paletti, l'analisi del Wto, l'Organizzazione mondiale del commercio, evidenzia che gli Usa, con una tariffa media del 3,5%, si colloca sì davanti all'Australia (2,5%), ma esercita una pressione all'ingresso inferiore rispetto all'Unione europea (5,1%), al Giappone (4%), al Canada (4,2%), all'Indonesia (6,9%), al Messico (7,1%), al Sud Africa (7,6%), alla Russia (7,8%), alla Cina (9,9%), all'India (13,4%), al Brasile (13,5%), alla Corea del Sud (14,9%).

Chiaramente accordi di libero scambio o negoziati bilaterali possono azzerare o ridurre tali percentuali per un gruppo di prodotti.

Negli ultimi anni, sulla spinta della globalizzazione e della crisi che ha colpito duramente a livello planetario (e parliamo di due dinamiche non necessariamente correlate, come proprio pochi giorni fa, con riferimento all'Italia, ha avuto modo di evidenziare il sociologo Giuseppe De Rita, presidente del Censis), il ricorso a border tax è cresciuto di oltre il 50% negli ultimi due anni, registrando i livelli massimi dal 2009.
Così rivela il rapporto Global trade alert.

Fra il 2008 e il 2016 i paesi del G-20 hanno introdotto più di 4mila nuove misure protezionistiche. In prima fila gli Stati Uniti con 1.251 misure, delle quali ben 1.084 adottate negli ultimi otto anni. Seguono in classifica Russia e India, Argentina, Brasile, Regno Unito, Germania, Francia e Spagna. L'Italia si colloca a quota 207 misure, più o meno in linea con il resto dell'Europa, ma davanti a Cina e Giappone.

Questo significa che, incrociando i risultati dell'analisi del Wto, rilanciati anche da Il Sole 24 Ore, e dal Global trade alert, pubblicati da La Stampa, emerge chiaramente come non vi siano necessariamente connessioni fra numero di vincoli applicati all'ingresso delle frontiere e peso delle tariffe medie applicate. Ne bastano dunque poche, ma elevate, a scoraggiare le esportazioni verso il paese di destinazione finale, per il prodotto cui viene applicato il dazio.

Rimanendo nell'alimentare, esemplare è il caso del pomodoro, oggetto di una "serrata dei due mondi". Molto prima della lista (ancora in sospeso, è bene ricordarlo) degli Stati Uniti, è stata l'Australia ad alzare un muro contro le importazioni dell'oro rosso.
Secondo l'Associazione nazionale degli industriali delle conserve alimentari vegetali (Anicav), i dazi imposti da Camberra nel 2015, la cui forbice spazia da un minimo del 3% a un massimo del 26%, hanno influito negativamente sulle esportazioni con un calo da 60 a 53 milioni in termini di valore (-10%). In volume, invece, la flessione è stata del 5%.
Tutto ciò, a fronte di un incremento complessivo delle esportazioni italiane di pomodoro e derivati superiori al 7% nel mondo, per un valore complessivo di 1,6 miliardi di euro.

La guerra, tra protezionisti e liberisti, è iniziata.