Aiuti allo stoccaggio dei prodotti lattiero caseari. Una formula in voga negli anni Ottanta e Novanta. E se oggi fosse superata? Se gli euroburocrati avessero preso un abbaglio e le misure approvate tra gli squilli di tromba si rivelassero non solo non risolutive per l’emergenza in corso del crollo dei prezzi del latte, ma anche un boomerang che rallentasse una ripresa futura?
Domande alle quali non è affatto semplice rispondere. Ma che nascono dall’analisi di alcuni dati pubblicati sul portale di Clal, punto di riferimento a livello mondiale per il comparto lattiero caseario. E che partono da un dogma: è il mercato che fa il prezzo, l’ammasso al contrario potrebbe generare speculazione.

È una riflessione che avanziamo proprio nel giorno in cui il ministero delle Politiche agricole comunica che è possibile inviare le domande per l’ammasso privato di 155mila tonnellate di formaggi, provvedimento resosi necessario per fronteggiare le conseguenze derivanti dai divieti di importazione dei prodotti europei imposti dalla Federazione Russa.
A livello europeo, i Paesi esportatori di prodotti lattiero caseari verso la Russia sono del Nord Europa con un export di circa 2,5 milioni di tonnellate di latte equivalenti all’anno. Che con l’embargo inevitabilmente si riversano entro i confini comunitari, salvo un diverso orientamento dei flussi commerciali extra-Ue.

Secondo quanto stabilito dall’Unione europea, l’importo dell’aiuto è fissato a 15,57 euro per tonnellata, per le spese fisse di stoccaggio, e a 0,40 euro per tonnellata al giorno, per le spese di magazzinaggio e di immobilizzazione del capitale. I formaggi oggetto di ammasso dovranno avere un’età minima compatibile con l’immissione al consumo del prodotto che, per i formaggi a pasta dura, non potrà essere inferiore ai 60 giorni.
Ammettendo anche che, con un ulteriore incremento delle risorse comunitarie – a oggi invero piuttosto complicato – si riesca a raggiungere una copertura pari ai listini attuali, che cosa ci si può attendere fra sette mesi, quando i prodotti non potranno più contare su tale sostegno?

Appare quanto mai scontato un crollo verticale del mercato. Per una ragione essenziale: Olanda e Germania, in particolare, con un simile scenario individuato dai burocrati dell’Unione europea non avranno altra alternativa che diminuire il prezzo del latte alla stalla, con un effetto negativo anche per il prezzo in Italia.
Che cosa significa, dunque? Che a fronte di un contributo all’ammasso privato di certo inferiore al mercato attuale, si ottiene come rimbalzo immediato un avvitamento in negativo dei prezzi del latte alla stalla. Significa che gli aiuti decisi e propagandati da Bruxelles come la panacea all’embargo russo non faranno altro che penalizzare ancora di più il sistema lattiero caseario europeo.

Diverso scenario, invece, si potrebbe sperare di ottenere se le polveri e il burro (il cui prezzo oscilla oggi fra 2.900 e 3.100 euro/ton e 2.050 e 2.350 €/ton ) – che sono le due materie di riferimento che incidono sui prezzi degli altri prodotti, dal latte ai formaggi – venissero “congelate” con prezzi di stoccaggio superiori (anche non di molto) alle quotazioni attuali. Con quali effetti? Con un alleggerimento immediato del mercato, al punto da scongiurare un crollo futuro dei prezzi.
Non sono pochi quegli analisti che ritengono che il semplice aiuto all’ammasso si ritorca sulle dinamiche del prezzo in maniera negativa, mentre una fissazione di un valore allo stoccaggio, seguito dalle dovute integrazioni per sostenere il magazzinaggio, eviterebbe non solo un’apocalisse futura, ma anche un’inversione di tendenza del mercato attuale del prezzo del latte su scala europea.

Va rilevato anche un altro dato, a sostegno della teoria più sopra esposta: in Europa le esportazioni di polveri di latte (intero e scremato) hanno registrato nei mesi di maggio e giugno (quindi prima dell’embargo russo) una crescita del 29% verso Paesi extracomunitari. Allo stesso tempo, anche a livello mondiale i segnali del bimestre maggio-giugno 2014 sono positivi per le movimentazioni delle polveri, burro e formaggi con una crescita del 14,68% negli ultimi due mesi maggio e giugno rispetto allo stesso periodo del 2013.
In Italia parte del mondo agricolo ha invitato a riflettere sulla possibilità di mettere in funzione un polverizzatore. L’idea, di per sé, è assolutamente positiva, purché chiaramente si superino le rivalità interne al sistema agricolo-sindacale, purché si operi sotto un controllo pubblico-privato e con la vigilanza dei consorzi di tutela.

Rimane però una questione aperta: la tempistica. Costruire un impianto di produzione delle polveri necessita di almeno due anni, ad essere ottimisti. Quante stalle saranno sopravvissute, fino ad allora? E ancora: è sufficiente utilizzare il polverizzatore come valvola si sfogo del sistema e per evitare di deprimere i prezzi o alla base dovrebbe essere considerata piuttosto una variabile legata all’innovazione e alla valorizzazione delle polveri e del siero anche ad uso industriale, alimentare e farmaceutico?
Restringendo il campo ai due formaggi a pasta dura simbolo del made in Italy, Grana Padano e Parmigiano-Reggiano, vale la pena di chiedersi se non sia giunta l’ora di stringere un patto d’acciaio e trascinare con sé tutte le aziende produttrici della galassia lattiero casearia vocata alle esportazioni.
L’obiettivo sarebbe quello di ridurre i costi e cercare nuovi mercati in maniera sinergica, magari sotto l’egida di Afidop, l’associazione dei formaggi italiani Dop e Igp. Evitando così gelosie e bandiere, ma consentendo ai marchi privati di mantenere il proprio logo e la propria autonomia, tenendosi così lontani dal suicidio auspicato dal patron Farinetti, Mister Eataly, che vorrebbe piuttosto un marchio unico per tutto il made in Italy.