Partiamo da un presupposto: l'industria agroalimentare europea (500 milioni di abitanti per 28 Paesi) è la prima al mondo avendo registrato nel 2014 un fatturato di 1.244 miliardi di euro. Segue quella cinese con 1.196 miliardi (per un miliardo e mezzo di abitanti) e quella Usa, 656 miliardi. Il dato negativo per l'Italia riguarda la competizione all'interno dell'Europa stessa.
L'Italia si posizione infatti solo al terzo posto come fatturato del settore (132 miliardi) superata da Francia (159 miliardi) e Germania (175 miliardi). Ma anche la Gran Bretagna si difende bene con 114 miliardi, così come la Spagna con 92 e la piccola Olanda, con 62.
Ma il Belpaese arretra di una posizione se si guarda al valore delle sue esportazioni agroalimentari. I tedeschi nel 2015 hanno esportato beni per 71,1 miliardi di euro, i francesi per 60,5 miliardi, gli spagnoli per 43,3 e noi italiani per 'soli' 36,9.
Risulta evidente dunque come l'Italia, nonostante si giovi del marchio made in Italy, esporta la metà di quanto faccia la Germania.
“Non basta solo avere prodotti di eccellenza, riconosciuti in tutto il mondo”, spiega De Castro. “Serve una capacità organizzativa e logistica efficiente. Servono reti di impresa che uniscano le piccole e medie aziende italiane, che non hanno al capacità di muoversi sui mercati internazionali. Ecco perché la Germania, che ha puntato tutto sulla logistica e l'organizzazione, riesce a soddisfare le esigenze dei clienti internazionali e della grande distribuzione, compensando una qualità dei prodotti più bassa”.
Un dato positivo viene dai prezzi medi alti dei nostri prodotti. Su un comparto come quello dei formaggi l'Italia spunta un prezzo medio all'export di 6,52 euro al chilo, contro i 4,58 della Spagna, i 4,51 della Francia e i 3,32 della Germania. L'Italia primeggia in comparti come quello della carni preparate e della cioccolata, mentre siamo superati dai francesi sull'olio di oliva (3,45 euro contro 5,51) e sui vini fermi imbottigliati. Qui i francesi spuntano prezzi medi di 4,64 euro, mentre noi italiani ci fermiamo a 3,15.
Altro dato positivo è il trend del mercato, in continua crescita. L'export agroalimentare Ue è cresciuto del 27% dal 2011 al 2015 e quello italiano di un sorprendente +79% tra il 2005 e il 2015 con i prodotti dolciari in testa al boom (+169%), seguiti dal caffè (+168%), dai prodotti lattiero-caseari (+90%), dalle carni lavorate (+83%), da pasta e conserve di pomodoro (+82%) e infine dal vino con un +80%.
Bene le esportazioni dunque, ma verso quali Paesi? Se l'Europa continua ad assorbire il 63% dei nostri prodotti, negli ultimi dieci anni sono cresciuti maggiormente gli Stati asiatici (esclusa Cina e India), passati dal 5,4% all'8,6%. Mentre gli Stati Uniti continuano ad essere il mercato extra-Ue più importante, con il 14%.
I consumi alimentari da qui al 2024 cresceranno in tutto il mondo, me secondo i dati Nomisma le industrie italiane dovrebbero prestare attenzione ad un gruppo ristretto di Paesi. L'India aumenterà la sua spesa alimentare dell'89%, seguita dalla Cina con un +68%. Da tenere d'occhio poi i 'next eleven', undici Paesi che in dieci anni consumeranno il 43% in più di prodotti (Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia, Bangladesh, Filippine, Pakistan, Corea del Sud, Vietnam, Egitto e Iran).
Gli Usa vedranno un incremento 'solo' del 19%, ma andando a spulciare i dati del gigante americano si scopre che lo spazio per le nostre imprese è enorme. Innanzitutto perché il Pil pro-capite statunitense è superiore a quello europeo (41.998 euro contro i 28.208 dell'Europa a ventotto). E poi perché i consumi alimentari sono relativamente bassi: gli americani spendono 667 miliardi di euro in cibo, contro i 1.162 degli europei. Per questo, ricorda De Castro, siglare il Ttip rappresenta una grande opportunità per la nostra industria. E l'Italia può partire da una buona posizione visto che importa prodotti dagli Usa per 1,1 miliardi di euro ed esporta per 3,6 miliardi.