“Le dimissioni non si annunciano, si danno”, precisa il prof. Scaramuzzi. E chissà perché, ci fa pensare al presidente della Federcalcio, Giancarlo Abete, che per ora le dimissioni le ha solo accennate, in attesa di formalizzarle al prossimo consiglio federale. Ma questa è un’altra storia, con un altro “greening” di mezzo.
Il professore rimane combattivo e non risparmia tirate d’orecchie verso “i politici che non sanno cos’è l’agricoltura e che non hanno più nemmeno la voglia di leggere tutti gli atti che noi inviamo, nello spirito di servizio verso l’agricoltura che da sempre l’Accademia dei Georgofili: fare ricerca affinché sia al servizio della crescita del settore primario”. E invece. “Non seguono, non leggono, non ascoltano e fingono di ascoltare”.
E allora ci viene in mente qualche giravolta, seppur legittima, connessa al rapporto con gli Ogm, di sottosegretari favorevoli alla sperimentazioni che, una volta indossati i galloni del capo del dicastero delle Politiche agricole, improvvisamente smarriscono la fede verso la scienza e frenano. Ma anche questa è un’altra storia.
In una fase in cui un georgofilo, anzi, come dice Scaramuzzi, “un georgofilone”, enfatizzandone le qualità, potrebbe diventare commissario all’Agricoltura dell’Unione europea, arriva l’endorsement accademico per Paolo De Castro.
“Lo stimo molto – dice il professor Scaramuzzi - è una personalità che unisce la tecnica, il sapere in materia di agricoltura e le capacità politiche. Quindi, è un nostro rappresentante da valorizzare. Abbiamo peccato tutto il peccabile con l’Europa, abbiamo mandato a rappresentare il nostro Paese in Europa, come in tutte le istituzioni mondiali, con gli amici degli amici. Andando a occupare non i posti di vertice, ma quelli di autista e di portiere”. Ora bisognerà incrociare le dita e far lavorare le diplomazie per ottenere un risultato alla portata e soprattutto adeguato al calibro di una personalità come De Castro.
Professor Scaramuzzi, leviamoci il pensiero: ha designato un delfino per la successione all’Accademia dei Georgofili?
“Il futuro dell’Accademia dei Georgofili, così come quello dell’agricoltura, è nelle mani del socio di maggioranza (sorride, ndr), che è quello che sta lassù. Non voglio entrare nella designazione del successore, ma so che c’è un vicepresidente vicario, che è disponibile e meritevole, quindi spero che tutti i componenti dell’Accademia dei Georgofili, circa 200 persone in tutta Italia, siano illuminati e scelgano o questo o uno migliore, se lo individuassero, ma mi accontento di questo”. (Il vicepresidente vicario è Giampiero Maracchi, professore ordinario di Climatologia all’Università di Firenze, ndr).
Dal suo osservatorio autorevole, qual è la situazione dell’agricoltura?
“Ieri ho trovato il termine giusto: annichilito. Adesso le leggo il significato sulla Treccani: ridurre al nulla, annientare la personalità di qualcuno; andare distrutto; umiliarsi profondamente”.
Scusi, mi sfugge qualcosa.
“Gli agricoltori italiani sono annichiniliti. Ha capito che la definizione del termine va da morto a stupito. L’agricoltura, che era l’attività principale ancora un secolo fa, nel nostro Paese e nel mondo, oggi è ridotta a bersaglio e trascurata dal mondo politico. Gli agricoltori, che erano uniti e politicamente avevano un grande peso, oggi sono invece divisi in associazioni di categoria e associazioni varie per prodotto e per tipo di impresa. E questa divisione li rende deboli”.
Ma non è ovunque così.
“No. In Francia gli agricoltori hanno ancora un peso politico notevole, in effetti”.
Cosa sta producendo questo annichilimento?
“Noi, come Accademia dei Georgofili, facciamo molte attività. Ma gli agricoltori dove sono? Dove li ascoltiamo? La verità è che l’agricoltore è disorientato, vessato, non riesce più a capire”.
Annientato da cosa, professore?
“Annientato da leggi, leggine, provvedimenti, mancanza di reddito personale. Ed è soprattutto per la mancanza di reddito che le imprese finiscono per vivere di sostegni finanziari che sono avvilenti, insufficienti, mal distribuiti a pioggia; Destinati più con un occhio verso l’elettorato, che non agli agricoltori veri. Abbiamo una miriade di piccolissime aziende che continuano a polverizzarsi, per effetto di successioni patrimoniali. Ma abbiamo aziende che i censimenti non considerano più come aziende agricole, con una superficie 100-200 metri quadrati. Le famiglie hanno un reddito che non viene dall’agricoltura, fanno altro e qualcuno, nei giorni festivi, si diverte a fare l’agricoltore, ma queste non contribuiscono al Pil, non pagano l’Iva”.
Questo danneggia l’agricoltura, secondo lei?
“Il problema è che gli agricoltori si trovano con un numero limitato di grandi imprese, realtà che però fanno il 65-70% della produzione, ma quell’associazione non ha voce in capitolo. Dopo la guerra abbiamo rischiato di diventare un paese comunista, dove si lotta la proprietà fondiaria, si combatte il padrone. Questi erano i termini con cui ci siamo avviati nella ricostruzione post-bellica. La terra ai contadini, questo era il clima. Mi dica, quali sono le regioni con una più marcata tradizione comunista in Italia?”.
(Con questa inversione fra intervistatore e intervistato, si rivela l’indole del professore, ndr).
Beh, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Marche, Puglia.
“No, la Puglia lo è diventata dopo. Sono quelle che ha elencato prima, parte delle regioni dell’Italia centrale. Lo sa perché? Perché c’era la mezzadria. Luoghi in cui la politica ha fatto presa, appunto, con proclami come la terra ai contadini, via i mezzadri, via i padroni. Questo è stato un calcio forte che gli agricoltori hanno ricevuto e nonostante questo sono riusciti, nel dopoguerra, a vincere la battaglia che si è poi chiamata rivoluzione verde. Una vittoria nonostante un esodo biblico dalle campagne, soprattutto dalle montagne e dalle colline; un esodo tutto proiettato verso le città e le industrie”.
È favorevole all’accesso dei contoterzisti ai Programmi di sviluppo rurale?
“I contoterzisti sono un fenomeno relativamente recente, perché non esistevano finche c’era la mezzadria. I mezzadri avrebbero dovuto pagare il contoterzista, ma quale mezzadro, che utilizza la propria forza lavoro, avrebbe pagato per far fare il lavoro al contoterzista? Inizialmente, si è assistito alla crescita della meccanizzazione proprio grazie ai mezzadri, che utilizzavano le tecnologie per alleviare il lavoro. Una volta andati via i mezzadri, gli imprenditori agricoli sono rimasti senza manodopera: avrebbero potuto anche comprare le macchine, ma non potevano fare tutto”.
Da qui la nascita dei contoterzisti agricoli.
“Esatto. Molti contoterzisti sono nati dalla mezzadria, sono mezzadri che grazie a contributi ad hoc si sono comprati le macchine, si sono arricchiti e ingranditi, furono riconosciuti come imprenditori e oggi si stanno comprando le aziende degli ex proprietari fondiari imprenditori, sostituendosi con le giuste visioni imprenditoriali che i contoterzisti hanno”.
Quindi, ricapitolando, la sua risposta è positiva? Dovrebbero accedere ai Psr?
“Certo, dovrebbero accedere. Anzi, sono più imprenditori loro che il singolo contadino”.
Le piace questa Ue?
“È venuta la necessità di cambiare qualcosa con l’Unione europea. Per noi è stata una tragedia, la nostra zootecnia è stata decapitata dall’impossibilità di competere con il Centro-Nord Europa, dove il bestiame va al pascolo e si trova il vitto per conto suo; noi invece dobbiamo fare il fieno e portarlo nella stalla. Abbiamo salvato il latte, con tutte le polemiche che sono nate, speravamo nell’ortofrutta, che è il nostro privilegio. Poi però l’Europa ha cambiato direzione, verso la libertà di mercato e niente di più. Con la conseguenza che ci troviamo i siciliani coi forconi che protestano, mentre noi importiamo dal Nord Africa. Ne ho parlato varie volte, mentre rimane muto il mondo degli agricoltori. Ma io, per chi parlo? L’accademia continua a fare le stesse cose per secoli, raccogliere innovazioni e idee, discuterle, sintetizzarle e offrirle”.
Compresi gli Ogm…
“Cerco di evitare di parlare di Ogm. Quest’ultima uscita europea, che viene lanciata come un successo, è in realtà una manifestazione di impotenza. Il ministro delle Politiche agricole, Maurizio Martina, è in gamba. Anche se un po’ mi ha deluso, perché da sottosegretario era partito affermando di essere favorevole alla ricerca e agli ogm. Poi quando è diventato ministro gli hanno fatto cambiare idea, anche se manifesta chiaramente i suoi imbarazzi”.
Quali sono, oggi, i nemici dell’agricoltura?
“Se guardiamo all’attualità, abbiamo dei nemici dichiarati, a partire dal mondo politico, perché certe ideologie non tramontano facilmente. Guardiamo all’imbarazzo di Renzi per certe posizioni che gli vengono da uno zoccolo duro del suo partito. Purtroppo in politica c’è chi non ha ancora capito che, combattendo il capitale, si creano povertà e disoccupazione. Io dico: apriamo ai capitali, non vessiamoli con imposizioni, anche fiscali e burocratiche. Poi c’è un altro nemico, rappresentato dalla categoria degli urbanisti, che sono quegli architetti che fanno di tutto e che adeso sono anche paesaggisti”.
Da chi cominciamo?
“Partiamo da un ragionamento complessivo. Le agroindustrie sono nate dalle manifatture, sviluppatesi all’interno delle aziende agrarie, per trasformare i prodotti agricoli, formaggi, olio, vino, produzione della seta, del cotone, del lino, il legno, e così via. Perché agricoltura si chiama settore primario? Perché il primo lavoro che si è trovato l’uomo e perché produce prodotti primari, che sono lavorati dalla manifattura e dall’industria. Oggi, però, le città si sono sviluppate in maniera incredibile e le industrie hanno speculato vendendo le proprie aree originarie, spostandosi nelle campagne. Chi è l’artefice di questa pensata? Gli urbanisti e gli architetti. Ma non è finita. Negli anni Duemila le industrie scoprono gli outlet e i cittadini le case coloniche abbandonate. E si compie un movimento inverso dalla città alle campagne. E riecco gli architetti, che costruiscono dove era pericoloso, mentre gli agricoltori sono andati via. Bene, adesso chi va a controllare se l’acqua nei fossi scorre, quando piove? Nessuno, e gli architetti non lo fanno. Poi vinse l’idea di tutelare il paesaggio agrario”.
Tutelare il paesaggio agrario non è un bene?
“Nascono movimenti per tutelare tutto, ma non l’agricoltura, perché è un’attività imprenditoriale. L’agricoltura non è un monumento, ha bisogno di innovazione per essere all’avanguardia. In Toscana oggi si vede solo vigneto, col rischio di trovare quella monocoltura che i saggi evitavano. Sa perché? Perché l’agricoltura è posta al rischio delle intemperie e bisogna tutelarsi, diversificando. Se, per qualsiasi ragione, il vino non si vendesse e rimanesse nelle cantine, l’agricoltura toscana e gran parte di quella italiana avrebbe un crollo. Eppure, questi paesaggisti, o ruralisti, come hanno preso a chiamarsi, hanno cambiato il paesaggio e nessuno ha fiatato”.
Gli agricoltori sono spesso nel mirino e accusati di essere degli inquinatori.
“Altra sciocchezza. Il concetto che gli agricoltori inquinano poteva essere vero nella prima fase della rivoluzione verde, con l’introduzione degli antiparassitari. Badi che non uso il termine pesticida, che è la traduzione maccheronica dall’inglese di pesticide. L’ambiente è stato la prima preoccupazione degli agricoltori, che hanno studiato per evitare la perdita di terra, i cedimenti e difendere l’ambiente. Ancora oggi gli agricoltori sono i primi a usare tecniche razionali. E la prego, non usi il termine sostenibilità, altra traduzione maccheronica dall’inglese sustainability. Si sostiene un palo, si sostiene un’idea. Per l’agricoltura invece si parla di agricoltura razionale, che in primo luogo tutela l’ambiente. Ma a volte bisogna fare i conti con dinamiche strane. Cosa cercano i verdi? La libertà e il benessere degli animali? La libertà della fauna di mangiarsi i raccolti, senza che nessuno pianga? E gli agricoltori chi li tutela?
Agli ambientalisti si sono aggiunti gli industriali e adesso, come polo terminale, si è aggiunta la grande distribuzione. Due fatti rivoluzionari, certo. Ma la filiera, che dovrebbe andare dal campo al consumatore, comprende realtà che non sono mai state regolamentate e che cooperano in base ad accordi presi. Il valore del prodotto agricolo conferito alle filiere alimentari, oggi raggiunge il 3-4% del Pil, ma diventa il 17-18% se lo si guarda dalla parte del costo per il consumatore. C’è una grande ingiustizia in tutti questo e a Bruxelles ci stanno pensando. I francesi stanno ottenendo normative che regolano i rapporti all’interno della stessa filiera, per garantire una ripartizione equa del valore aggiunto, in qualche modo. Incece, che cosa hanno fatti gli industriali? Non hanno perso tempo, con il mercato libero e senza protezioni da parte dell’Unione europea, hanno comprato grano, pomodori e olio dal mercato mondiale a prezzi bassissimi, perché la manodopera in quei paesi è molto bassa. Con la conseguenza che centinaia di migliaia di ettari non sono più stati seminati, anche di terreni buoni”.
Altri nemici dell’agricoltura?
“L’urbanizzazione delle campagne, che continuano a far calare la Sau, in diminuzione ormai da anni. Poi hanno applicato l’Imu, senza ascoltare quanto l’Accademia dei Georgofili andava dicendo: il terreno agricolo è uno strumento di lavoro, non un bene patrimoniale da rendita. Non so se è chiaro il concetto che la superficie di terreno che perdiamo lo è in forma irreversibile”.
Nel 2015 ci attende l’Expo. Cosa si aspetta?
“Il tema è molto intelligente: Nutrire il pianeta, energia per la vita. Ma avremo un paese che predicherà bene e razzolerà male. Assistiamo a una contraddizione in termini, perché vogliamo partecipare a un’operazione planetaria per garantire la sicurezza alimentare di tutta l’umanità, però nel nostro paese continuiamo a rubare terra per costruire, con l’errore di affidarsi a chi si è dipinto l’equivoco termine di architetti ruralisti. Soggetti che parlano di agricoltura paesaggistica, invertendo i due termini, fingendo di ignorare che i sempre cangianti paesaggi agricoli hanno avuto continue evoluzioni nel corso del millenni. La stoltezza di sviluppare attività professionali per progettare l’agricoltura e realizzare paesaggi da conservare nel tempo”.
Oggi si assiste però un ritorno alla terra e agli studi. Come vede il fenomeno?
“Quando ero studente, le donne alla Facoltà di Agraria erano in media una ogni due anni e una me la sono sposata, per non perdere tempo. Adesso le donne sono oltre il 60 per cento. Altra differenza: a quei tempi gli studenti erano in gran parte figli di agricoltori, mentre oggi i figli degli agricoltori si guardano bene dall’avventurarsi in simili materie, cercano altre professioni”.
Perché, secondo lei?
“Perché i genitori dicono che sono annichiliti. Sono agricoltori che non offrono un esempio di attività brillante ai loro figli, mentre anche il piccolo coltivatore ha sempre un atavico desiderio di avere un figlio che faccia il medico. Una volta le professioni erano sacerdoti, avvocati, medici, letterati. A questi gridi di euforia che vengono lanciati attraverso la stampa di giovani che ritornano nelle campagne, non ci credete, perché nelle campagne il lavoro è duro. E, a ben vedere, chi piega la schiena a lavorare nei campi non aumenta, aumentano quelli che compilano le carte. La verità è che sfruttiamo in modo vergognoso gli immigrati, altrimenti non avremmo manodopera per raccogliere i prodotti”.
Cosa suggerisce per attrarre veramente i giovani?
“Bisogna fare come con le mosche, mettere lo zucchero, trovare un’attività agricola e riportare un reddito. Se c’è il reddito, i giovani rimangono, altrimenti stanno quel minimo indispensabile che gli incentivi pubblici assicurano. Non sono pessimista, ma questo politico abbaglio è voluto, per tranquillizzare, ma non dura, a meno che i giovani non trovino un reddito. Qualcuno trova un reddito con l’agriturismo e le attività collaterali, che però non sono agricole”.
Recentemente si è aperto un dibattito su tracciabilità e made in Italy. Che peso ha la provenienza della materia prima?
“Sul made in Italy la provenienza della materia prima è essenziale. Così come è essenziale il rapporto con il territorio e la qualità del prodotto, elementi che hanno portato i nostri prodotti ad essere apprezzati in tutto il mondo. Invece i nostri industriali fanno la pasta col grano importato, ci scrivono made in italy e non vogliono etichette che informano il consumatore”.
Ma quando parliamo di pasta, il grano italiano non sarebbe sufficiente a coprire la produzione. Che alternative propone?
“Usiamo la formula elaborata in Italia, se c’è un mix. Il made in italy va tutelato, perché così facendo si tutela l’agricoltura. Il made in Italy lo è soltanto se è italiano dal campo al consumatore, altrimenti è truffa”.
Prima ha parlato di un “georgofilone” come Paolo De Castro. Cosa mi dice di Carlo Petrini?
“Petrini è un miracolo, non so dove trovi i soldi. Ha fatto la sua fortuna con slogan politici intelligenti, anche lui è un georgofilo. E l’idea di Slow Food è stata eccezionale”.
Recentemente si è chiuso a livello delle Regioni l’intesa col ministero sulla Pac. Sugli aiuti accoppiati sono sorte un po’ di polemiche.
“Sì, ho sentito lamentele di tanti settori, compreso quello dell’olivo, che aspiravano ad avere più fondi. Sono liti fra poveri. L’essenziale è che i fondi vengano usati bene, che non vengano utilizzati con criteri sbagliati o, peggio, clientelari”.
Qual è il segmento dell’agricoltura che le piace di più?
“L’arboricoltura, il mio professionale”.
È per questo che ha chiamato sua figlia Oliva?
“Sì. Galeotta fu la tesi di mia moglie, quando ero ancora un giovane assistente. Ho avuto la fortuna di seguire una professione da docente, e ho capito che per fare la didattica un professore non si può fermare alle sue ricerche, ma ha bisogno di studiare tutta la materia per intero. Questo è il dovere, perché si prevede che il docente faccia ricerca scientifica, per risolvere i problemi che la dottrina non contempla ancora”.