Di fronte all'aggressione militare spietata della Russia in Ucraina, Polonia e Ungheria hanno avuto atteggiamenti contrastanti, pur essendo governate dalla stessa matrice politica di destra. La Polonia di Duda espresse una posizione di netta condanna, dimostrandosi in chiave europea uno dei "falchi" contro lo zar Putin. L'Ungheria di Orbán, considerato un fedelissimo del presidente russo, pur prendendo formalmente le distanze dal presidente Putin, di fatto si è ritrovato più volte a bocciare le sanzioni proposte dall'Unione Europea verso la Russia.

 

In questi giorni Polonia e Ungheria, due esponenti del cosiddetto Gruppo di Visegrád, hanno ritrovato la sintonia e così, prima Varsavia poi Budapest, hanno deciso di vietare l'importazione di cereali dall'Ucraina, per non penalizzare i propri agricoltori, colpiti dai ribassi del mercato e con i silos pieni della propria merce, meno competitiva in quanto per agevolare le vendite dall'Ucraina era stato stabilito il dazio zero.

 

Alla presa di posizione netta dei due Paesi si è aggiunta anche la Slovacchia, seppure con una formula leggermente differente (sconsigliando l'importazione di grano e farine dall'Ucraina e vietando l'immissione sul mercato dei prodotti già importati e fermi nei magazzini, sostenendo l'utilizzo di un prodotto chimico vietato e scatenando una reazione sconcertata da Kiev).

 

Inoltre, la proposta della Commissione Europea di prorogare per un altro anno - fino a giugno 2024 - la sospensione dei dazi per i prodotti agroalimentari dall'Ucraina avrebbe trovato la contrarietà di un blocco più esteso di Paesi dell'Europa Orientale. Oltre a Polonia, Ungheria e Slovacchia avrebbero già firmato una lettera con la richiesta di non procedere in tal senso anche Bulgaria e Romania, sollecitando misure di contenimento delle importazioni dall'Ucraina.

 

Dalla Polonia, il neo ministro dell'Agricoltura Robert Telus - subentrato a Henryk Kowalczyk, dimissionario dopo le proteste degli agricoltori - ha accusato Bruxelles, sostenendo che fosse impossibile che l'Ue non sapesse che il grano ucraino proviene in parte anche dalla Russia, aggirando così le sanzioni. L'opposizione parla invece di società legate al Governo di Varsavia che, rivendendo a basso costo nell'Ue prodotti agricoli destinati al Nord Africa, si stanno arricchendo grazie a ingenti profitti.

 

Chissà, forse è vero, forse no. Quello che sembra aver mandato in tilt il sistema è il fatto che, funzionando a singhiozzo il corridoio della solidarietà attraverso il Mar Nero, fra blocchi, controlli rallentati sulle navi in partenza dai porti ucraini, si sarebbe in parte preferita la rotta commerciale attraverso l'Europa dell'Est.

Tuttavia, il transito verso i Paesi più esposti all'insicurezza alimentare (a partire dal Nord Africa e Centro Africa) non sarebbe stato sempre fluido, con la conseguenza di aver provocato crolli dei prezzi dei cereali nell'Europa Centro Orientale, scatenando così le proteste del mondo agricolo.

 

Nemmeno l'offerta dell'Ue di ricorrere al Fondo anticrisi della Politica Agricola Comune e mettendo a disposizione una prima tranche di 56 milioni di euro, sarebbe stata sufficiente per placare le tensioni. D'altronde, secondo i dati pubblicati dalla Commissione Europea alla fine del 2022 le esportazioni di settore dell'Ucraina verso il mercato Ue sono quasi raddoppiate in valore, superando i 13 miliardi di euro (dai 7 miliardi circa del 2021, con un balzo dell'88% tendenziale), proiettando l'Ucraina al terzo posto tra i fornitori dei prodotti agroalimentari della Ue, superando gli Stati Uniti.

 

Intanto, dall'altra parte del mondo, la Cina punta a rafforzare gli stock di grano, attraverso una politica di sostegno dei prezzi interni, che di fatto ha innescato una corsa all'acquisto di cereali dall'estero. Solo nel mese di febbraio Pechino ha accresciuto gli acquisti di frumento del 123% rispetto allo stesso mese del 2022, con l'Australia primo fornitore (col 44% del mercato), seguito da Unione Europea (39% del market share) e Stati Uniti (9%).

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Fra gli importatori di mais si è inserito anche il Brasile, con oltre 780mila tonnellate vendute in Cina lo scorso febbraio e una quota di mercato balzata al 25%, secondo i dati riportati da Teseo.Clal.it.

 

La Cina, primo importatore di cereali e di semi oleosi a livello mondiale - solo a febbraio ha ritirato oltre 7 milioni di tonnellate di soia (+38,4% tendenziale) - si conferma un player in grado di fare la differenza, influenzando le dinamiche di trading e di prezzo dei listini a livello planetario.

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