Un euro al chilo, o poco più, quanto una tazzina di caffè. E’ il prezzo che il mercato paga per i suini da macello.
Prezzi che non coprono le spese di produzione, frutto di una beffarda congiuntura di mercato che prima ha portato i prezzi alle stelle, invogliando a spingere sulla produzione, e ora paga lo scotto del calo dei consumi innescato dalla pandemia da Covid-19.

Come se questo non bastasse, ecco arrivare in molti paesi europei, ultimo in ordine di tempo la Germania, la temibile peste suina africana. Con il risultato che i flussi di esportazione verso i paesi terzi si sono interrotti.
In particolare verso la Cina, da tempo uno dei principali acquirenti mondiali di carni suine, dopo che i suoi allevamenti sono stati decimati dalla stessa peste suina africana.
Il risultato finale è un eccesso di produzione che privo di sbocchi sui mercati terzi cerca nuove vie di uscita, trovando facile spazio in Italia, da sempre deficitaria e forte importatrice di carni suine. Così i prezzi crollano più che altrove.
 

La via cinese

A dispetto di questa sua dipendenza dalle importazioni e forte dell’apprezzamento per le produzioni made in Italy, la suinicoltura italiana non è però rimasta inerte rispetto a questi “stravolgimenti” del mercato, cercando a sua volta di avere spazi di manovra sul mercato cinese.
Operazione coronata da successo da parte di Opas, l’Organizzazione di prodotto che vanta un ruolo di primo piano in questo settore.
Nel 2020, da aprile a dicembre, dalla filiera controllata da Opas sono partite alla volta di Pechino circa 500 tonnellate di carne per un valore attorno ai 13 milioni di euro.


Tracce di virus

Ora però la “via cinese” potrebbe interrompersi bruscamente. Le autorità sanitarie cinesi avrebbero infatti bloccato una partita di carne arrivata alla dogana interna di Dongguan nei primi giorni di gennaio.
Colpa, affermano, della presenza di tracce del virus Sars-Cov-2.

Motivazione poco convincente, in mancanza di evidenze scientifiche sulla possibilità delle derrate alimentari e della carne di veicolare il virus.
Non sarebbe la prima volta che motivazioni sanitarie, anche solo presunte, vengono prese come pretesto per aggirare accordi commerciali e favorire una provenienza a scapito di un’altra.

La partita sequestrata, circa cinque tonnellate, rischia la distruzione, ma non è questo il danno maggiore temuto da Opas.
Le esportazioni verso la Cina rappresentano un'importante valvola di sfogo per il settore suinicolo, specie in questo periodo di profonda crisi di mercato.
Inoltre si mette in forse l’impegno per aprire il mercato cinese alle produzioni italiane, lavoro sostenuto anche attraverso gli aiuti della Ue, che ha assegnato a Opas un finanziamento di 3,6 milioni di euro per i prossimi tre anni.
 

La richiesta di aiuto

Ora la partita è nelle mani della Commissione europea e delle istituzioni nazionali, alle quali è stato evidenziato il problema.
E’ importante trovare in breve una risposta. Ad essere coinvolte non sono solo le carni suine italiane, ma anche quelle di altri paesi europei.

Con il risultato che una riduzione del flusso dell’export europeo finirebbe con l’appesantire ancora di più il mercato, accentuando una crisi che si fa di giorno in giorno sempre più insopportabile.