"In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio". Scomodiamo devotamente il Vangelo di Giovanni per sottolineare l'importanza della parola, il lògos. Abbiamo atteso ben più di qualche giorno per tornare a mente fredda su un tema che, a ben vedere, riguarda proprio una parola: carne.

Il Parlamento europeo ha deciso di non decidere e così si potrà continuare a utilizzare tale termine anche per definire prodotti commestibili, magari simili per foggia o dimensioni, di origine vegetale. Bisogna anche ricordare che, se era stato precedentemente alla decisione dell'Europarlamento stabilito un divieto di usare "carne" per prodotti non derivati da animali a livello nazionale, come ad esempio in Francia, tale proibizione resta. Quindi, l'ostacolo potrebbe aggirarsi con restrizioni a livello di Stati membri, se si ritiene di ingenerare confusione e di ingannare i consumatori.
 
Certo il fenomeno della "carne" vegetale è cresciuto rapidamente negli ultimi due anni (+38%), tanto da toccare nel 2019 la soglia di un miliardo di euro di fatturato in Europa e 208 milioni di hamburger-non hamburger venduti. L'Italia è il terzo mercato dopo Gran Bretagna e Germania e vale quasi 180 milioni di euro. Una crescita che è avvenuta spinta dalla novità del prodotto, dalla diffusione di nuove mode e stili alimentari.

Un paio di anni fa un imprenditore di peso del settore agroalimentare mi chiese cosa pensassi del fenomeno Beyond meat, della carne sintetica, della quotazione a Wall Street e del fenomeno, confessandomi che stava seguendo con molta attenzione il fenomeno. Era una curiosità da imprenditore, senza pregiudizi, senza condanne, niente preconcetti, ma con lo sguardo rivolto a capire come sarebbero andate le cose. La carne-non carne avrebbe preso piede? Sarebbe stato un business interessante? Carne è un nome generico oppure no?

Abbiamo visto che i primi a rifiutare che al sostantivo "carne" venga accompagnato il suffisso "veg" sono proprio gli allevatori. Il mondo agricolo è stato compatto a schierarsi per proibire che la parola fosse utilizzare per preparati vegetali o comunque non derivati dalla zootecnia. Una domanda - senza polemica, naturalmente - anche per loro. Se si fosse lavorato per una "specializzazione" della carne, una valorizzazione delle razze, una formazione attenta del consumatore che fosse di valenza culturale da un lato e di disponibilità a riconoscere il valore corretto della bistecca, sarebbe finita allo stesso modo? Non so rispondere, chiedo a loro, e non certo con l'obiettivo di metterli in difficoltà o sbeffeggiarli.

Un quesito, però, anche a chi, per scelta personale, culturale, ideologica, religiosa o altro, non mangia carne. Ecco, chiedo a vegetariani e vegani, con la medesima volontà di conoscere e non di polemizzare: a voi sta bene che vengano spese locuzioni come hamburger vegano, salsiccia vegana, veggie mortadella? Oppure anche voi chiedete che siano trovati altri termini, così da lasciare alla parola carne la funzione di identificare prodotti connessi alla zootecnia e basta?

Chiarito questo aspetto, mi ricollego a quanto detto dall'amico imprenditore, interessato a cavalcare l'onda, ne sono assolutamente certo. Ribalto la prospettiva, però. E mi chiedo questo: conviene produrre materie prime agricole di origine vegetale da destinare a quel particolare canale? Superando tutto il tema del lògos, del Verbo, della definizione, mi concentro sul vil denaro, che quando si fa impresa - che richiede reddito - tanto vile non è. Quanto potrebbero essere valorizzati di più i fagioli, la soia, il pisello proteico, la barbabietola rossa e tutti quegli altri prodotti che, anziché prendere la strada dei mercati generali o dei fruttivendoli o della grande distribuzione, finissero nei circuiti degli hamburger-non hamburger?

Chiedo scusa. Sono andato oltre la questione del meat sounding, del tema del naming, della decisione del Parlamento europeo e della necessità, magari, che tutti gli Stati membri su un tema così centrale per la dieta dell'uomo prendano una posizione comune a livello nazionale.

Per il latte di soia e dintorni è stato fatto, imponendo l'obbligo di chiamarle "bevande". Forse la direzione dovrebbe essere quella, a logica. Peraltro c'è chi ripropone il tema del latte-non latte, ottenuto da risorse esclusivamente vegetali, come la Impossible foods, che ha annunciato un paio di settimane fa l'intenzione di produrre un latte con lo stesso gusto e lo stesso comportamento in cucina di quello vaccino. Sul piatto ha messo circa 700 milioni di euro per indirizzare la ricerca. E Nestlé lancerà a breve il primo Nesquik vegetale senza latte. Liberissimi tutti di consumarli o meno, ma questi nuovi prodotti stanno diventando realtà e sempre di più entreranno negli stili di vita delle persone. Anche perché è in atto da tempo un bombardamento contro la zootecnia che condanna la produzione di carne in termini di inquinamento ambientale che è pesantissimo (e forse non supportato da analisi scientifiche in tutto e per tutto imparziali).
 
Andiamo oltre il lògos, di nuovo. Magari proviamo a individuare una soluzione per garantire chiarezza, trasparenza, qualità, tracciabilità, ma soprattutto redditività. E ragioniamo insieme per valorizzare al meglio una nuova opportunità che si offre al sistema agricolo.